Sarà una serata particolare quella del 25 aprile al Teatro Sociale di Bellinzona. Sia perché l’intero ricavato andrà all’Associazione per l’aiuto medico al Centro America (Amca). Sia perché ad esibirsi, ma da solo e non accompagnato dalla sua band, sarà Pippo Pollina, il cantautore di origini siciliane da oltre 20 anni trapiantato in Svizzera che prima nel nostro paese, poi in Austria e Germania e da qualche anno anche in Italia conosce un lusinghiero successo di critica e di pubblico. Pollina con il tour “Racconti e canzoni” festeggia 25 anni di presenza sulla scena musicale, sempre in equilibrio fra i generi, dalla canzone d’impegno latino-americana al cantautorato italiano, fino alla tradizione multietnica e al jazz. Una carriera scandita da 12 album e dalla collaborazione con Battiato, Jovanotti, Branduardi, Inti Illimani e molti altri. In questa intervista Pollina riassume questi 25 anni. La prevendita per il concerto è in corso all’Ente turistico di Bellinzona (091 825 48 18, dalle 13.30 alle 18). Pippo Pollina, cominciamo dall’inizio: lei è giunto in Svizzera quale suonatore di strada. E se è rimasto qui è stato innanzitutto un caso. Sì, facevo per due anni e mezzo un giro del mondo con chitarra e sacco a pelo. Ho girato in quel periodo tutta l’Europa, l’Africa e parte del Nord America. Andando e venendo dall’Italia questo mi portava a passare e quindi a suonare spesso nelle strade della Svizzera. Mi capitò così di conoscere il cantautore grigionese Linard Bardill che mi propose di fare una tournée con lui. L’occasione di mettere in piedi qualcosa di professionale mi indusse per finire a rimanere in Svizzera. Cosa ha trovato il pubblico svizzero-tedesco in lei? Sicuramente il mio esotismo 20 anni fa ha giocato un certo ruolo. Oggi che ci si muove più in fretta forse non sarebbe più così. Credo però che col tempo s’è istaurato un rapporto di complicità per il fatto che mi sono dimostrato interessato alla cultura che sono andato a trovare. È quindi un rapporto costruito sullo scambio, ciò l’ha reso solido: se ci fosse stata soltanto della curiosità per il mio esotismo l’interesse del pubblico svizzero, tedesco e austriaco si sarebbe esaurito dopo poco tempo. Lei è arrivato in Svizzera quando l’immigrazione italiana era ormai già ampiamente accettata: ha sentito delle chiusure invece da parte della scena musicale svizzera? No, per nulla. Proprio perché ho sempre dimostrato grande interesse nei confronti delle altre culture. Questo ha portato ad un reciproco interesse fra la scena locale e me, consentendomi ben presto di accedere a strutture teatrali e musicali che normalmente ospitano artisti svizzeri. Era la scena delle Kleinbühnen, dei piccoli teatrini di provincia, che proprio in quel periodo stava nascendo e che consentiva a chi la frequentava una notevole libertà per sganciarsi dalle normali strutture mediatiche che veicolano la musica in base a criteri commerciali. Cosa è rimasto dell’esperienza di suonatore di strada? Direi il mio approccio molto disincantato al palco. Lo definirei un approccio psicologico al pubblico. Non mi piacciono quegli spettacoli preparati troppo nel dettaglio in cui l’elemento estemporaneo non trova spazio. Mi piace, a dipendenza del luogo in cui si va, cambiare sempre qualcosa, pur mantenendo un canovaccio comune a tutte le esibizioni. Ora che, a partire dai primi anni ’90, la geografia dei suoi concerti s’è allargata prova anche più piacere a suonare in pubblico? Senz’altro perché la Svizzera tedesca cominciava un po’ a starmi stretta. Perché è stretta. Il passo con gli altri paesi di lingua tedesca è stato abbastanza breve, mentre rimettere piede musicalmente in Italia (dove sono presente da sei anni) non è stato facile. E la mia è ancora un’eccezione, normalmente è impossibile per chi vive e lavora all’estero riuscire a rientrare almeno con la propria musica in Italia. Questo ha a che fare con la mentalità di un popolo, con la scarsa curiosità musicale degli italiani, ma anche con la chiusura del mercato, con il sistema dei media, con la necessità di avere alle spalle una grossa organizzazione. Lei collabora con molti artisti anche famosi e di estrazione musicale molto diversa dalla sua. La dimensione che preferisce è quella dello studio? Mi piace lavorare in studio, ma non posso dire di avere una preferenza rispetto alla performance dal vivo. Io tengo molto al palco, e credo anzi che è sul palco che do il meglio di me. Anche nei momenti di collaborazione l’estemporaneità dell’esperienza gioca un ruolo fondamentale. Tant’è che queste collaborazioni avvengono in genere sulla spinta di un incontro fortuito e di una simpatia reciproca, quindi sulla base del desiderio di scambiarsi qualcosa. Così che da questo desiderio estemporaneo di collaborare possono nascere cose molto diverse: una canzone, un concerto, un disco, un progetto più ampio… Lei ci tiene molto al palco, ma in realtà è un antipersonaggio. Non ho mai sopportato quegli artisti che vogliono diventare personaggio. Forse gli artisti sono narcisisti per natura, per cui sono più portati ad assumere certi atteggiamenti. Anch’io sono narcisista, ma nel mio piccolo cerco di tenermi a bada. In questi mesi festeggia i 25 anni di attività in ambito musicale con un tour di concerti nel quale si esibisce prevalentemente da solo, pur con una guest star. Perché questa scelta? La dimensione della solitudine sul palco è quella che mi consente di essere più libero, quindi di cambiare ogni sera repertorio se mi va. Volevo fare un riassunto di questi 25 anni proponendo un estratto di melodie, armonie, canzoni e storie che danno la misura del senso di questo mio percorso individuale. Cosa deve aspettarsi quindi il pubblico che verrà a sentirla a Bellinzona? Non lo so. Anche perché per metà lo spettacolo viene deciso proprio dal pubblico. Faccio un gioco con gli spettatori: mentre la prima parte del concerto è fissa, alla pausa propongo alla gente di indicarmi quali brani vogliono ascoltare nella seconda parte. Quindi le richieste mi vengono portate in camerino e in base alle richieste definisco la scaletta. La varietà delle scelte mi colpisce, mi sorprende quanta gente ci sia che conosce bene il mio repertorio, a cominciare da canzoni anche molto vecchie, quasi dimenticate, di cui nemmeno ricordo il testo per cui lo devo ogni volta recuperare in fretta e furia. La canzone che viene più richiesta è “Camminando”, una vecchia canzone che è un po’ il simbolo di questo mio pellegrinare che ho scritto già una ventina di anni fa. In Svizzera è certamente la mia canzone-simbolo, in Italia invece mai nessuno si sognerebbe di chiederla.

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31.03.06

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