Le storie infinite

Ognuno di noi, in un momento o nell’altro della propria vita, si è ritrovato a rivestire i panni del narratore, a depositare nella memoria degli altri – bambini, amici, ecc. – una vicenda, un aneddoto o semplicemente una storia dai contorni quotidiani. Ma il raccontare una storia diventa arte quando il narratore possiede il dono di plasmare la parola con il tono, la gestualità e l’espressività. Quando per un momento trasporta l’ascoltatore «altrove», gli dà la chiave d’accesso per penetrare personaggi e luoghi che non conosce. Se poi al narratore e all’ascoltatore fa cornice l’incanto di una piazza o di una corte, ecco che la magia può raggiungere il suo zenit. Ebbene il paese di Arzo, con le sue splendide corti e la sua piazza diventa spazio ideale per il rito del narrare. Ed è lì che per il secondo anno consecutivo si svolge – da oggi, 31 agosto fino al 2 settembre – il Festival internazionale di narrazione dal titolo «Racconti di qui e d’altrove», organizzato dall’Associazione Giullari di Gulliver e dall’Associazione Cultura popolare di Balerna. Nel piccolo centro montano si ritrovano per tre giorni narratori provenienti da nazioni e culture diverse (ebraica, africana ma anche quella classica dei Fratelli Grimm). Forti del successo dello scorso anno (oltre 1500 spettatori nelle due serate), hanno portato da due a tre i giorni del Festival arricchendo il programma con una tavola rotonda e una mostra di opere d’arte al (Ristorante Torchio), alcune delle quali saranno messe all’asta domenica (ore 18). Un’immersione totale nella narrativa classica e contemporanea (con tematiche sociali) insieme ad alcuni dei maestri del racconto quali Marco Baliani (uno dei pionieri del teatro di narrazione) insieme a, Roberto Anglisani, Jihad Darwiche (Libano/Francia), la Compagnia de la Ribaude, Ferruccio Cainero e il gruppo dei Confabula (Associazione Giullari di Gulliver), grazie ai quali è nata l’idea di allestire il festival. Un importante spazio sarà riservato al racconto spontaneo: la Corte dei Miracoli infatti ospiterà il sabato e la domenica narratori non professionisti, persone comuni dei paesi vicini. Il tutto in un programma di 20 spettacoli che vede coinvolte 14 compagnie e 7 paesi e che si rivolge sia al pubblico dei bambini che a quello degli adulti. Ma come si diventa narratori e che cosa contraddistingue il teatro di narrazione? Per saperne di più abbiamo sentito uno dei beniamini del Festival, l’attore-narratore Roberto Anglisani. L’artista ha visto nascere questa manifestazione ed ha collaborato alla formazione dei Confabula. Ha inoltre lavorato con numerose compagnie teatrali (fra cui il Teatro dell'Elfo di Milano) aggiudicandosi per la stagione ‘93-’94 il premio Stregagatto come miglior attore. Quando nasce il narratore Anglisani? Quali sono state le esperienze più significative del suo percorso teatrale? Ritengo che un attore non sia il seguace di una dottrina ma la risultante di tante esperienze, dalle quali attinge di volta in volta, che vanno a comporre il suo essere attore. Così mio iter teatrale si è consolidato in scuole molto vicine al metodo Stanislawsky, in quella di Barba e nella Scuola di Raoul Manso di Milano. In seguito con Marco Baliani ho iniziato l'esperienza del narratore e da quel momento in poi ho partecipato a tutte le esperienze di narrazione che Baliani ha messo in campo. Credo di essere stato l'attore più presente nelle produzioni di Baliani fino a Francesco a testa in giù. La mia è un'esperienza di «narrazione teatrale». Cosa significa in pratica? Il narratore lavora facendo riverberare sul suo corpo spazi, personaggi, cose aiutando così colui che ascolta a vederli. La parola con il suo potere evocativo e il corpo creano realtà inesistenti che modificano la mia mimica e gestualità tanto che il pubblico attraverso me vede ciò che io vedo. Pensiamo ai nostri occhi che con la loro espressività possono essere grandi creatori di spazi e di dimensioni. «Ragazzi di cuore» (racconti yiddish di Isaac B. Singer) s'intitola uno dei due spettacoli che presenterà al Festival: chi sono questi protagonisti di cui racconterà? Questi racconti li ho scoperti avvicinandomi alla cultura yiddish attraverso un altro libro Giobbe di Joseph Roth, da cui ho tratto una sorta di lettura-spettacolo. In quel periodo io e i miei compagni di scena (Marco Belcastro e Simone Mauri) abbiamo cominciato a leggere, la sera, Giobbe per gli adulti e la mattina a raccontare le storie di Singer ai ragazzi.Volevamo aprire una finestra su un mondo sconosciuto ai più, su un popolo capace di ridere di se stesso e di far ridere. La cultura yiddish, abbiamo voluto dire loro, ha prodotto le storie che vi stiamo raccontando ma qualcuno ha cercato di cancellarle. E come questa esistono tantissime altre culture ignorate e che rischiano di restare nell'ombra se non c'è qualcuno che con la sua curiosità le riporta a galla. Come nasce uno spettacolo di narrazione? Io, come altri, seguo le regole della tradizione orale. Leggo una storia e tutte le volte che la racconto opero solo quei cambiamenti che aiutano gli ascoltatori-spettatori a penetrare meglio la storia stessa. La narrazione in quanto genere teatrale ha assunto una forma sempre più codificata con le «sue regole e la sua retorica». Ma quanto spazio resta alla spontaneità? Questa codificazione non è mai a priori. Prenda ad esempio Michelle Kolaas (di Marco Baliani, tratto da un racconto di H. von Kleist, ndr) che parte proprio da un’opera letteraria: in questo caso il primo lavoro che si fa è proprio quello di rendere orale la forma letteraria che di per sé non è sempre evocatrice di immagini. La narrazione invece è «vita pura» nel senso che ciò che io racconto te lo faccio vedere, ti ci faccio passare attraverso; poi sarai tu, pubblico, a tirare le tue conclusioni. È stato detto che la narratività è come un viaggio. Dove conduce? Si dice anche che gli uomini raccontino per allungarsi la vita, per combattere la morte. Attraverso un racconto, in cui si parla della paura d'una strega o dove qualcuno soffre o gioisce, l'ascoltatore sente da una parte la grandezza della vita ma anche la possibilità di andare oltre la morte, arrivando magari a comprendere che la morte fa parte della vita stessa. Marco Baliani, con cui lei collabora, in pratica afferma che il racconto dovrebbe sedurre lo spettatore. È dunque questo ciò che lo spettatore si aspetta da voi narratori? Sono profondamente convinto che chi ascolta desidera essere trasportato da qualche parte, in un altro posto, in un altro mondo. Ecco, sì, ciò che desideriamo è far fare a chi ci ascolta un'esperienza virtuale, permettergli di emozionarsi, sentire, vedere intorno a sé cose che non esistono. Che cosa differenzia un narratore da un attore? Il narratore non è un attore. L’attore «si sposta» sul territorio del personaggio, mentre il narratore porta il personaggio nel proprio territorio. Ritiene che un Festival come quello di Arzo possa contribuire ad affermare e diffondere il genere della narrazione? Ne sono convinto. Arzo fa parte di quel grande fermento che in Europa si sta muovendo nell'ambito della narrazione. Pensi che in Spagna, in alcuni bar i raccontatori salgono sul palco per narrare delle storie di 15-20 minuti e la gente ascolta seduta ai tavolini, proprio così come altrove si ascoltano i cabarettisti. Arzo è un fenomeno bellissimo perché fatto da persone stupende. E dico stupende perché organizzano il festival per amore e non per diventare famose. Non cercano l'evento di successo ma l'evento umano, e prova ne è che lo facciano in un piccolo nucleo come Arzo, ricco di corti che favoriscono l'incontro fra le persone. E trovo che i Confabula siano il gruppo più innovativo in Ticino nell'ambito della narrazione, perché con coraggio e grande passione cercano continuamente di fare qualcosa di nuovo. Sono un fenomeno molto bello che non può che progredire perché hanno un cuore puro, fino all'eccesso, completamente fuori dalla logica del mercato. E sono la dimostrazione che non è vero che si ha successo o che si può lavorare solo se si è «bastardi».

Pubblicato il

31.08.2001 06:00
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