Sono i ragazzi che bruciano le auto, che si organizzano in bande che rivaleggiano nelle violenze di questi giorni. Ma le donne non stanno solo a guardare. Molte, in questi giorni, si sono impegnate per cercare di riportare la calma. Lo hanno fatto soprattutto attraverso le associazioni di quartiere. La maggior parte di queste associazioni difatti sono gestite da donne, sono le donne delle cité che trovano in questi luoghi un posto per discutere, per scambiare delle idee, per impegnarsi. Nelle strade dei quartieri sensibili le donne si limitano a passare, con passo affrettato, senza fermarsi. Le donne, le madri di famiglia in particolare, sono state prese di mira in questi giorni, persino dal presidente Chirac, che ha rotto il lungo silenzio durato 14 giorni, richiamando «i genitori» al «rispetto delle proprie responsabilità». Il presidente ha sottolineato che «troppi minorenni» sono scesi in strada, sottintendendo che le famiglie – cioè le madri in primo luogo, che in questi quartieri (come del resto anche negli altri) hanno sulle spalle il carico dell’educazione dei figli – non fanno il loro dovere. «I genitori non osano più fare nulla – dice una mamma – ci rimproverano di non avere più nessuna autorità, ma come facciamo? I figli minacciano i genitori». Le ragazze non hanno partecipato alle violenze, sono rimaste chiuse in casa mentre i loro fratelli scendevano in strada. Ma le ragazze hanno anch’esse dei motivi per rivoltarsi contro la polizia, che fa controlli continui anche su di loro, anche loro sentono sulla loro pelle il muro invisibile che le confina nel quartiere di nascita, sentono lo sguardo che la società porta su di loro. In questo contesto, il velo diventa una difesa, un muro per difendersi dal muro. In questi giorni non è tempo di polemiche interne, contro le famiglie troppo esigenti con le ragazze, contro i fratelli che si trasformano in controllori delle uscite. A scuola riescono meglio dei ragazzi, ma la disoccupazione le colpisce in pieno, rendendo vani gli sforzi nel campo dello studio. Appena diventate madri, cercano di preservare i figli dalla deriva della violenza. «La mia cité mi piace – dice una giovane madre – ma se un giorno me ne andrò lo farò per mio figlio», perché non vuole che frequenti una scuola «dove imparano a malapena a leggere e a scrivere, fanno il minimo qui». Le ragazze «capiscono» i motivi della rivolta in corso, anche se non arrivano ad approvare le violenze fisiche sulle persone. Molte denunciano anche le violenze contro le strutture pubbliche, specie gli asili o gli autobus. Delle donne adulte, madri di famiglia, hanno cercato in questi gioni di fare da mediatrici, di riportare la ragione. Secondo Mimouna Hadjam, che anima l’associazione Africa 93 a Saint Denis, «la rabbia dei giovani è legittima, ma autodistruttrice». «Non capisco, sono senza parole di fronte a questa violenza» afferma Valérie Dardenne, la direttrice della comunicazione della casa della cultura a Bobigny Mc93, che «si rivolge contro i luoghi che sono ampiamente aperti» ai giovani, «come le scuole materne, le biblioteche. Agiscono nell’esasperazione, contro i loro propri interessi, al di là della distruzione di simboli dell’ordine che contestano». Una consigliera d’educazione di un liceo del dipartimento della Seine-Saint Denis, dove sono iniziate le violenze, spiega la disperazione delle donne di questi quartieri: «alcune madri ce lo dicono, quando sono obbligate ad uscire di casa prima delle sei del mattino, per andare a fare le pulizie in un grande magazzino o in un’impresa, per sovente non tornare che la sera, quando sono sommerse dalle preoccupazioni materiali: come conservare una disponibilità e l’energia di genitore? Tanto più che le regole e i costumi francesi, come la proibizione delle punizioni corporali, le lasciano disarmate, in situazioni di rottura con le abitudini dei paesi d’origine». Secondo lo scrittore Pierre Jourde, che ha ricevuto il premio Renaudot dei liceali per Festins secrets, «dal momento che i professori si sono lasciati insultare, sputare addosso, ci siamo chiusi in un’alternativa insolubile». La stessa cosa, secondo lui, succede in casa: «o l’adulto non risponde e ciò comporta il crollo delle regole, oppure reagisce, ma passando anch’egli all’aggressione. C’è quindi un’incapacità a trovare una giusta posizione». Una donna ha testimoniato in modo anonimo su Le Monde. Christine C. racconta la sua vita e le sue paure, da 28 anni alla cité dei 4000 a La Courneuve, nella periferia parigina. Christine è operaia, ha cominciato a lavorare a 16 anni, è franco-francese, ha gli occhi azzurri. Ha sulla sua banlieue uno sguardo completamente diverso dalle persone appartenenti alle “minoranze visibili”. «È difficile diventare minoranza a casa propria» afferma. «Le banlieues esplodono e nessuno si pone la vera domanda: dove sono i genitori? I ragazzini che girano per strada fin dai 6 anni, già questo dovrebbe essere punito alla base. È facile accusare la società, la disoccupazione, gli insegnanti: bisognerebbe prima di tutto rieducare i genitori». Parla di «ghetto», chiede che vengano in banlieue delle «persone di Parigi, per mischiare di nuovo la gente». Non trova nessuna scusante ai casseurs : «è una roba da pazzi. C’è gente che è espulsa da casa propria, delle famiglie intere, dei sans papiers che dormono in strada, questi meritano di destare compassione. Ma non quelli delle cité che hanno un appartamento con riscaldamento, delle scuole, tutto quello che abbiamo anche noi. Essere disoccupati non giustifica gettare le pattumiere dalle finestre e distruggere tutto».

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18.11.05

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