Il legionario, il primo lungometraggio diretto dal giovane regista Hleb Papou, parla delle trasformazioni sociali dell’Italia contemporanea. In questo film, in concorso nella sezione Cineasti del presente del Locarno Film Festival, il protagonista è Daniel, italiano di origini africane entrato nel reparto mobile della polizia, che è chiamato a sgomberare lo stabile romano in cui vive illegalmente la sua stessa famiglia d’origine. Abbiamo incontrato il regista Hleb Papou. Hleb Papou, nel 2017 ha diretto un cortometraggio intitolato Il legionario e poi ha deciso di lavorarci di nuovo per creare il suo primo lungometraggio. Perché questa scelta?
Mentre ero ancora studente del Centro sperimentale di cinematografia di Roma, nel 2015, è nata l’idea de Il legionario. Era l’epoca in cui in Italia si discuteva dello ius soli, il progetto di legge, poi affossato, che avrebbe consentito l'acquisizione della cittadinanza italiana ai nati sul territorio italiano a prescindere dalla cittadinanza dei genitori. Questo documentario ha avuto una buona accoglienza in diversi festival internazionali e mi ha permesso di trovare i fondi per girare il mio primo lungometraggio. Quali sono gli elementi di novità del lungometraggio?
Nel cortometraggio ci siamo concentrati soprattutto sugli ambienti della polizia. Nel lungometraggio abbiamo potuto dedicare molto più spazio all’ambiente dell’occupazione. In generale, come ovvio, abbiamo potuto sviluppare meglio la narrazione e i personaggi e siamo riusciti a dare più respiro alla narrazione. Ci sono modelli di cinema a cui ti sei ispirato?
Io e gli sceneggiatori non volevamo assolutamente fare un film di periferia fatta di gente triste e storie avvilenti. Abbiamo preso spunto da alcuni fatti di cronaca. L’occupazione delle case esiste davvero e si trova in via Santa Croce in Gerusalemme a Roma. L’episodio dell’interruzione di elettricità nello stabile è reale e anche l’intervento dell’elemosiniere del Papa Konrad Krajewski, che ha riattaccato la corrente prendendosi tutta la responsabilità, è accaduto nel 2019. Salvini, allora impegnato sul fronte della “legalità”, criticò molto quel gesto. Nel tuo film si parla delle cosiddette seconde generazioni, persone nate in Italia con genitori di origine migrante. Sei sensibile al tema?
Io non mi sento di seconda generazione. Sono nato in Bielorussia ma ho fatto tutte le scuole in Italia. L’Italia è un paese multietnico e saranno sempre di più le persone nate da genitori con origini migratorie presenti nella società, anche in posizioni importanti, persino in polizia. Dobbiamo abituarci a questo fatto. Mi infastidisce che spesso l’italianità venga sbandierata soltanto in caso di successo o di meriti di una determinata persona. È molto ipocrita. La rappresentazione del corpo di polizia appare molto convincente e realistica: avete svolto ricerche specifiche?
Sì, siamo entrati nel mondo della Celere, abbiamo conosciuto i poliziotti, ne abbiamo studiato le dinamiche; ho persino introdotto gli attori nell’ambiente. Quando abbiamo scritto i personaggi che lavorano in polizia abbiamo cercato di essere onesti, cercando di evitare rappresentazioni stereotipate o tesi precostituite. Il capo del reparto di polizia ha chiare tendenze fasciste, eppure apprezza molto il protagonista di colore. Perché?
Nella Celere abbiamo riscontrato un cameratismo molto forte. Esistono legami molto intensi, quasi famigliari, che tengono insieme i poliziotti. A partire da questa appartenenza, il colore della pelle può non essere così rilevante. Il legame tra il capo della polizia e il protagonista è per questo forte, sincero. Anche le case occupate di Roma sono una realtà intrigante e non molto conosciuta…
Si parla delle case occupate di Roma soltanto nel momento in cui avviene uno sgombero. Questo mondo, che ha una lunga tradizione, è piuttosto complesso. Ci sono molti contesti differenti tra loro. In queste case vivono sia italiani, sia persone con origini migratorie. Persone di sinistra, ma anche persone che votano a destra. Per girare questo film ho vissuto una settimana in una casa occupata. Non è un ambiente facile, non è confortevole viverci, e si è a contatto con storie difficili, a volte molto tristi. Inoltre, come cerco di mostrare nel mio film, ci sono regole molto ferree che vanno assolutamente rispettate. I conflitti rappresentati nel film all’interno della casa sono molto marcati, ma non sembra esserci spazio per il razzismo. E così?
Nella casa hanno ben altro per la testa. Chi vive lì ha scelto di concentrarsi sui problemi reali e non ha tempo per distrarsi con questioni razziste o xenofobe ridicole. Italiani e stranieri delle case occupate vivono una condizione che li accomuna, hanno esistenze precarie e sanno che da un momento all’altro potrebbero ritrovarsi senza un tetto sopra la testa. |