Il sistema previdenziale dei tre pilastri, uno pubblico e due privati, fu introdotto in Svizzera dopo l’approvazione nel 1972 del controprogetto all’iniziativa del Partito del lavoro in cui si chiedeva di potenziare la pensione pubblica dell’AVS. Come si è arrivati a questo sistema? Quali implicazioni ha avuto sulle persone salariate? Lavoratrici e lavoratori ci hanno guadagnato con la finanziarizzazione delle pensioni? Ne parliamo con l’economista Christian Marazzi, che già nel 1998 si occupò del tema, dedicandogli un capitolo “Il capitalismo dei fondi pensione”, all’interno del libro “E il denaro va. Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari”.

 

Christian Marazzi, come si è arrivati al capitalismo dei fondi pensione?

Nei primi anni 80, l’attacco frontale al mondo del lavoro organizzato, ai sindacati, cambiò l’intero paradigma su cui si fondava la società. Reagan negli Stati Uniti e la Thatcher in Gran Bretagna, attaccarono sin dal loro insediamento il mondo sindacale, polverizzandolo. Da quella vittoria, con il passaggio dal primato delle prestazioni a quello dei contributi, la privatizzazione e finanziarizzazione delle pensioni diventò praticabile, per la felicità dei mercati borsistici che si videro affluire quantità immense di capitali, di fatto del risparmio collettivo dei lavoratori. Fino ad allora, lo Stato sociale era il frutto di una mediazione tra gli interessi del capitale e quelli del movimento operaio. Il principio era che tutti potessero avere i mezzi necessari per poter partecipare alla vita sociale, politica e culturale. Con la vittoria del neoliberismo, la “comunità nazionale” diventa una moltitudine di casi singolari e concreti per i quali lo Stato elabora strategie di controllo e programmi di pensionamento individualizzati. A quel punto, la privatizzazione delle pensioni dei lavoratori divenne realtà.

 

La privatizzazione delle pensioni si fonda però anche sul consenso delle masse. In Svizzera fu approvata in votazione popolare nel 1972, quando tre quarti dei votanti dissero sì al secondo pilastro, bocciando invece la proposta del Partito del lavoro di potenziare la pensione pubblica. Tra i favorevoli al secondo pilastro, ci furono anche il partito socialista e l’USS…

Fu un enorme abbaglio. Il movimento sindacale e socialista preferì appoggiare la soluzione del secondo pilastro, ritenuta l’unica via accettabile in quel momento storico, cadendo nella trappola della lobby delle assicurazioni che da decenni, con metodo e intelligenza strategica, aveva predisposto e sottoposto al Consiglio federale il modello dei tre pilastri.

 

Anche perché la privatizzazione delle pensioni era stata venduta con tante promesse che oggi si sono rivelate fasulle. Negli ultimi venti anni, le rendite del secondo pilastro sono calate del 40%, a fronte di contributi in costante crescita. Le rendite dell’AVS, le pensioni pubbliche, invece sono cresciute del 19%.

C’è una coerenza malefica tra precarizzazione, flessibilizzazione del lavoro e finanziarizzazione del sistema pensionistico. La ricchezza creata va a beneficio dei vertici della piramide sociale. Per sua natura, la finanziarizzazione favorisce i redditi medio-alti, mentre penalizza quelli bassi, specialmente in un mondo del lavoro instabile in cui spesso si accumulano lacune contributive. Invece di investire qualcosa come il 60% dei nostri fondi in azioni e obbligazioni, trasformando i diritti sociali in titoli finanziari, sarebbe decisamente meglio destinare almeno una parte di questi capitali in opere infrastrutturali pubbliche, a maggior ragione in questo periodo drammatico di cambiamento climatico.

 

Che impatto ha avuto sulla vita dei lavoratori l’enorme massa di capitali delle loro pensioni affidata all’industria finanziaria? 

Ha generato una condizione di schizofrenia interna alla società. Da un lato, il lavoratore si batte per ottenere delle migliori condizioni d’impiego e di stipendio. Dall’altra parte, c’è il fondo che gestisce le sue pensioni, investendole sui mercati finanziari notoriamente preposti alla destabilizzazione dei suoi stessi diritti di lavoratore. In un certo senso, stai finanziando chi sta distruggendo i tuoi diritti. Nel lavoratore, dunque, convivono i due opposti. È un paradosso molto reale. Un grande studioso delle trasformazioni sociali, Peter Drucker, aveva definito nel 1976 gli Stati Uniti il più grande paese socialista, poiché i lavoratori americani, attraverso i loro fondi pensione, erano proprietari già allora del 25% del capitale azionario delle imprese americane. E poiché le partecipazioni dei fondi pensione sarebbero inevitabilmente cresciute nel tempo, Drucker preconizzava che nel giro di dieci anni, la metà delle azioni delle imprese americane sarebbe stata in mano ai lavoratori, diventando così i proprietari dei mezzi di produzione. Un socialismo un po’ bislacco, dato che i fondi pensione sono serviti più che altro a rafforzare il capitalismo finanziario. Sarebbe più corretto chiamarlo “socialismo del capitale”.

 

Proprietari senza saperlo. 

E senza poter decidere nulla. Questo è un aspetto centrale della questione. Tutto il sistema è avvolto da una coltre opaca. Se provate a chiedere a un dirigente di un fondo pensione o un membro della Commissione federale di vigilanza, difficilmente saprà dirvi con precisione dove li abbiano investiti. Anzi, non vi dirà un bel niente. Figurarsi i lavoratori. 

 

I fondi pensione confidano all’industria finanziaria (banche e altri soggetti) la gestione degli investimenti. È una massa enorme di capitali, quasi 1’200 miliardi di franchi, equivalenti a una volta e mezzo l’intero prodotto interno svizzero. Già nel libro “E il denaro va”, lei evocava la pericolosità del sistema. “La ricerca di rendimenti elevati dei fondi per assicurare anche solo il mantenimento delle rendite potrebbe causare crack borsistici molto pesanti”, scriveva nel 1998. È stato un facile profeta?

Da quando il sistema pensionistico è stato basato sul principio della capitalizzazione, in particolare sul primato dei contributi, sono stati centinaia i crack borsistici. Invece, dal 1950 al 1970, il periodo dei Trenta gloriosi fordisti, i crack borsistici sono stati al massimo due. Il dramma è che il ripetersi di crack finanziari degli ultimi decenni, si è tradotto in ripetuti tagli delle rendite pensionistiche. 

 

Pietro Boschetti, autore del libro “L’affare del secolo, il secondo pilastro e gli assicuratori” relativo alla privatizzazione delle pensioni in Svizzera, definisce intelligenti e cruciali le due votazioni di quest’anno sul sistema previdenziale promosse dal movimento sindacale. 

È un segnale di rilancio della lotta di tipo sindacale su un tema centrale per i lavoratori in Svizzera. La definirei quasi una nemesi storica. Tutta la vicenda dei fondi pensione privatizzati è intimamente legata all’indebolimento di qualsiasi corpo intermedio di rappresentanza degli interessi dei lavoratori. Il neoliberismo mira a distruggere la classe operaia nella sua composizione organica e di rappresentanza. 

 

Fa bene dunque il sindacato a bocciare la riforma LPP in votazione?

Certo. A tutela dei lavoratori, il sindacato ha l’obbligo di cercare di impedire qualsiasi peggioramento delle rendite pensionistiche private e di lottare per migliorare quelle pubbliche come con la tredicesima AVS. È solo riprendendosi il diritto alla rappresentanza degli interessi dei lavoratori, che si potrà trovare una sorta di equilibrio nel conflitto tra capitale e lavoro, come fu il caso nei trent’anni del secondo dopoguerra. Decenni in cui furono trovati dei meccanismi di ripartizione della ricchezza prodotta tra lavoratori e proprietari d’imprese attraverso la funzione ridistributiva dello Stato, in particolare dello Stato sociale.  

 

Boschetti si spinge ad auspicare l’abolizione del secondo e terzo pilastro, per triplicare le rendite AVS. Condivide?

Da sempre sostengo questa via. Ma l’obiettivo deve essere inserito in un cambiamento di società più ampio. La finanziarizzazione delle pensioni è diventata possibile perché faceva parte del disegno neoliberale, il cui scopo principale era, ed è tuttora, quello di cambiare il modo di produzione e i rapporti sociali intrinsechi tra lavoro e capitale. Per farlo, il neoliberismo aveva bisogno di sbarazzarsi dei sindacati. E ci è riuscito, ma solo in parte. Il risultato odierno è aver reso precarie le condizioni di lavoro e di vita di lavoratrici e lavoratori. E di conseguenza, anche le loro pensioni. Per questo, ogni tipo di cambiamento auspicato in questo campo, deve essere inserito in un progetto di società più ampio, col quale si possa arrivare, tra l’altro, alla riappropriazione delle proprie pensioni da parte dei lavoratori. 

 

 

Pubblicato il 

18.09.24