Le parole al vento e gli affari concreti

«Il capitalismo sostenibile» è stato lo slogan di questa cinquantesima edizione del World economic forum. Per la sua giornata di partecipazione, il solo presidente americano Donald Trump e il suo entourage hanno speso quasi 3,3 milioni di franchi, senza comprendere le spese della sicurezza e dei dipendenti pubblici. Sua figlia Ivanka, per scorrazzare nelle vie della località grigionese, ha noleggiato una limousine al prezzo di 33mila dollari, stando a quanto riportato dal portale Quartz.
Una contraddizione tra i principi enunciati e i fatti concreti di poco conto rispetto alla denuncia del recente rapporto “It’s the finance sector, stupid” di Greenpeace International: «Le 24 banche presenti a Davos hanno finanziato l’industria dei combustibili fossili per un valore di circa 1.400 miliardi di dollari, che equivale al patrimonio complessivo dei 3,8 miliardi di persone più povere del Pianeta nel 2018». Una contraddizione non certo nuova.

L’etica esclusiva
Da tempo, il Wef intitola i suoi appuntamenti ricorrendo a slogan che richiamano la responsabilità sociale del mondo economico. A volte, sfiorando il ridicolo. Il portale d’informazione Watson ha invitato i suoi lettori a confrontare gli slogan delle passate edizioni del Wef con le pubblicità delle case automobilistiche. Il risultato è esilarante.
La scelta degli slogan dal sapore etico è frutto di operazioni di marketing per rilanciare l’offuscata immagine del Wef dopo anni di contestazioni. Ma nel succo, il simposio rimane un concentrato di potere dell’economia mondiale, col contorno di una passerella politica di capi di stato o alti dirigenti di organizzazioni internazionali. Se l’attenzione mediatica si concentra sui politici presenti, ben più importante è il dietro le quinte del mondo degli affari.  


Le mille aziende economicamente più importanti del globo, selezionate in base al loro fatturato, vi partecipano pagando quote d’iscrizione iniziali da un minimo di 80mila dollari. Ma per discutere in sessioni private con altri manager del ramo, si deve pagare l’abbonamento annuale da “partner industriale” al prezzo di 300mila dollari. Infine, l’ultimo grado è quello di “Partner strategico” del Wef, che dà diritto all’accesso a cinque persone per un costo di circa 600mila dollari, come riferito dal corrispondente del New york times (Nyt). Quest’ultima tappa è diventata ancor più esclusiva. Lo scorso anno, il Wef ha comunicato di non accettare nuove candidature di “Partner strategici”, salvo che l’azienda non sia cinese o indiana e rientri tra le 250 più grandi del mondo. Difficile credere che l’esclusiva cerchia del potere economico si ritrovi a Davos per discutere la promozione dei valori etici nell’economia globale o quali misure concrete intraprendere per contrastare i mutamenti climatici. D’altronde, il simposio si chiama Forum economico mondiale, mica Onu.

Gli accordi privilegiati
Lo scorso anno, Onu e Wef hanno siglato un accordo di «partenariato strategico», stranamente ignorato dai media. A rivelarlo all’opinione pubblica, ci hanno pensato le Ong, tra cui la svizzera Public Eye.
Diverse centinaia di Ong hanno sottoscritto una lettera aperta ad António Guterres, segretario generale dell’Onu, chiedendogli di cancellare quell’accordo. «Questo partenariato pubblico-privato – si legge nella missiva – assocerà per sempre l’Onu alle società multinazionali, le cui attività essenziali hanno provocato o aggravato le crisi sociali e ambientali alle quali il pianeta è confrontato. Sappiamo che l’agrobusiness distrugge la biodiversità e i sistemi alimentari durevoli, che le società petrolifere e carbonifere mettono in pericolo il clima mondiale, che le grandi società farmaceutiche indeboliscono l’accesso ai medicamenti essenziali, che le società estrattive causano danni durevoli agli ecosistemi e alle popolazioni, e che i fabbricanti di armi approfittano di guerre locali e regionali così come della repressione dei movimenti sociali. Tutti questi settori sono degli attori importanti in seno al Forum economico mondiale.» I patti di collaborazione con le multinazionali, secondo gli scriventi, equivale a minare ulteriormente l’indipendenza dell’autorità politica nel tutelare gli interessi della popolazione mondiale a favore dei tornaconti degli azionisti delle grandi società. In maniera figurata, sarebbe come coinvolgere i piromani nel corpo dei pompieri, siglando un partenariato strategico.

Il dietro le quinte
Sapere di cosa discutano realmente i capi delle multinazionali al riparo dai riflettori è praticamente impossibile. Qualche risposta verosimile l’ha fornita il giornalista del Nyt, Kewin Roose. Esperto d’informatica e di business, Roose ha partecipato alla scorsa edizione del Wef, dedicata alla quarta rivoluzione industriale. «Osservando i dirigenti aziendali al Wef, ho notato che le loro risposte alle domande sull’automazione dipendono molto da chi sta ascoltando» ha scritto il giornalista, profondo conoscitore dell’ambiente imprenditoriale globale. «Le posizioni pubbliche degli imprenditori sull’impatto dell’automazione sui lavoratori son ben diverse da quanto dicono in privato» è stata la sua constatazione. In pubblico, sostengono che il processo di automazione sarà lento e i posti di lavoro soppressi saranno ampiamente compensati dai nuovi impieghi creati. In privato, confessano di aver accelerato notevolmente il processo di automazione  aziendale per fronteggiare la concorrenza e soddisfare le pressioni degli azionisti che vogliono i profitti in costante crescita. Con buona pace per i lavoratori.


Più schietti pubblicamente, scrive Roose, sono i capi d’azienda asiatici. Questi ultimi, con fierezza, descrivono la rapidità con cui stanno sostituendo gli umani con i robot dotati d’intelligenza artificiale. Il dubbio se scegliere di usare la tecnologia per creare prosperità condivisa o una maggiore concentrazione della ricchezza, per loro non si pone. Viva l’onestà dei capitalisti, quelli asiatici.

Pubblicato il

01.01.2020 15:42
Francesco Bonsaver