È uno stillicidio di vite umane che si consuma giorno dopo giorno, nell’indifferenza pressoché generale, tanto in patria quanto all’estero. E la strage rischia di assumere proporzioni ancora più gravi in quanto sono almeno una sessantina le persone che ormai si trovano in condizioni di salute disperate, con i corpi che hanno subito danni irreparabili. Parliamo dei detenuti turchi e di loro cari in sciopero della fame da quasi duecento giorni. "Una morte silenziosa non serve a niente" è il drammatico appello a rompere il muro di silenzio che circonda questa drammatica agonia collettiva lanciato dieci giorni fa da Fatma Sener, 22 anni, giunta, allora, al 155 giorno della disperata protesta. Non sappiamo se è ancora viva, o se è ormai entrata in quello stato comatoso che precede, fra forti dolori, la perdita della vita. Sono già diciannove i morti di questo sciopero. Quindici detenuti e quattro loro parenti, che ne sostenevano la lotta. Attualmente sono in sciopero circa cinquecento prigionieri e un numero imprecisato di sostenitori esterni, che hanno promesso di proseguire sino all’estremo sacrificio se non vedranno accolte le loro richieste. Si tratta prevalentemente di detenuti politici, appartenenti a gruppi dell’estrema sinistra, illegali, accusati di terrorismo. La protesta è scattata lo scorso ottobre allorché il governo di Ankara decise di trasferire i prigionieri in carceri di massima sicurezza "di tipo F". Niente più i cameroni delle prigioni tradizionali, ma celle piccole, al massimo per tre detenuti. Ankara ha giustificato la misura con la necessità di tenere sotto controllo prigionieri considerati pericolosi e di togliere ai politici la possibilità di compiere opera di proselitismo fra i detenuti comuni. La riforma carceraria turca aveva ottenuto anche il placet del Consiglio d’Europa, ma i diretti interessati si sono ribellati. In effetti, per capire la protesta, occorre tenere presente che le carceri turche hanno ben poco da spartire con le nostre. Una cella per uno o due-tre detenuti può essere una garanzia di maggiore igiene, tranquillità, decoro. Però in Turchia per il detenuto politico la garanzia maggiore è data dalla massima promiscuità. Solo se ogni momento della sua vita di detenuto è sotto la vista del maggior numero di compagni, ha più alte possibilità di sfuggire alle vessazioni dei secondini, alle torture della polizia. Inoltre, la detenzione in piccole celle comporterebbe l’isolamento pressoché assoluto dei prigionieri politici ai quali è proibito, per legge, di incontrarsi durante il giorno. La disperata forma di protesta dimostra quanto alti siano i timori dei prigionieri e quanto drammatica sia la loro situazione. D’altronde prova di questo dramma la avemmo lo scorso dicembre, quando l’esercito intervenne con la forza in più carceri, uccidendo una trentina di persone. Ora il ministro turco della giustizia, Hikmet Sami Turk, ha promesso una revisione della legge che impedisce ai detenuti condanni per reati connessi al "terrorismo" di uscire dal regime di isolamento delle loro piccole celle. Con questa revisione i prigionieri potranno partecipare ad attività sportive, culturali, professionali e incontrarsi liberamente, a condizione però che la loro condotta risulti "irreprensibile", a giudizio, ovviamente, del direttore del carcere. Le proposte di modifica legislativa sono state accolte positivamente dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, una cui delegazione è appena rientrata dalla Turchia. Comitato che però non ha nascosto dubbi e perplessità su una corretta applicazione di queste norme, una volta che saranno approvate dal Parlamento. Nel frattempo lo sciopero della fame prosegue: l’Associazione dei familiari dei detenuti politici chiede garanzie contro i soprusi e le torture che le modifiche di legge non offrono, visto che il governo di Ankara da sempre smentisce l’uso della violenza nelle carceri e quindi ben si guarda da adottare misure che, sia pure indirettamente, in qualche modo lo riconoscano. In questo contesto è da salutare positivamente l’annuncio dato la scorsa settimana dal Dipartimento federale degli affari esteri di un prossimo passo diplomatico svizzero presso il governo di Ankara. Il nostro ambasciatore è stato incaricato di sollevare i temi del rispetto dei diritti umani nelle prigioni turche e in generale nel paese. Il capo del dipartimento, Jospeph Deiss, ha però nel contempo respinto la richiesta, avanzata dalla consigliera nazionale socialista Ruth-Gaby Vermot, di proporre l’adozione di misure economiche, in particolare nel quadro degli accordi di Bretton Woods. Secondo il consigliere federale Deiss, non sta alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale prendere in considerazione il tema del rispetto dei diritti umani. Cosa verissima, visto come le politiche economiche imposte da questi istituti ai paesi poveri finiscano quasi sempre per ledere profondamente i diritti umani (specie nel campo sociale) dei ceti più umili del Terzo e Quarto mondo. L’agonia nelle carceri turche si consuma in un contesto generale socio-politico profondamente disastrato. L’economia è al collasso, con un’inflazione altissima. Basti pensare che il dollaro che agli inizi dell’anno valeva 675mila lire turche, oggi vale oltre un milione. Ora il ministro delle finanze ha annunciato un piano di risanamento, che però abbisogna del sostegno della finanza internazionale, e come detto, le condizioni che vengono poste da Fmi e Banca mondiale non sono mai indolori. Ma con le previsioni di un’inflazione che alla fine del 2001 potrebbe superare il 52%, le possibilità di scelta del governo turco sono esigue. Certo, una diversa politica nei confronti dei curdi, con la ricerca di un accordo in grado di dirottare le immense risorse mangiate dall’esercito nel settore pubblico, darebbe una buona boccata d’ossigeno alle casse statali. Ma i militari, che sono i veri padroni del Paese, non sembrano pronti a tanto. Anzi, autoinvestitesi della missione della salvaguardia dello Stato laico e dell’unità nazionale, sono restii anche all’ingresso in Europa, temendo di vedere limitato il proprio potere. Così continuano a fare affidamento sul forte alleato americano che li ha sempre appoggiati data l’estrema importanza strategica della Turchia. Un appoggio che nel prossimo futuro di certo non verrà meno. Con buona pace di quanti continuano a morire, nelle carceri come sulle montagne dell’Anatolia, in nome di quei diritti che non saranno mai troppo apprezzati da quanti, come noi, hanno la fortuna di godere.
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