«Il Movimento delle Donne Socialiste in Germania si ispira al monumentale adagio di Karl Marx: “I filosofi finora hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; quello che dev’essere fatto è cambiarlo.” [Il movimento] si sforza di aiutare a cambiare il mondo risvegliando la coscienza e la volontà delle donne della classe operaia di unirsi nella realizzazione dell’atto più titanico che la storia abbia mai conosciuto: l’emancipazione del lavoro da parte delle stesse classi lavoratrici.» Clara Zetkin, Il movimento delle donne socialiste in Germania, ottobre 1909 Friedrich Engels scrisse che all’interno della famiglia moderna, fondata sulla schiavitù domestica della donna, quest’ultima rappresenta il proletariato. L’uomo, ovviamente, la borghesia. Una condizione di doppia oppressione – di classe e di genere – che comporta un potenziale doppiamente rivoluzionario. Non è un caso se storicamente l’affermazione dell’8 marzo come giorno di lotta è legata a doppio filo alle realtà più progressiste del ventesimo secolo. Nell’agosto del 1907 il congresso della II Internazionale generalizza la rivendicazione a favore del suffragio universale e istituisce l’Ufficio di informazione delle donne socialiste diretto da Clara Zetkin, una delle massime esponenti – assieme a Rosa Luxemburg – del futuro Partito Comunista Tedesco. Secondo Aleksandra Kollontaj fu giustamente Zetkin la madre intellettuale della “Giornata internazionale delle operaie”. Ma chi era Aleksandra Kollontaj? Bolscevica, prima ministra di governo donna nella storia dell’umanità, in carica quando, nel 1920, la Russia Sovietica aveva ormai legiferato sul diritto all’aborto, al divorzio e alla parità salariale, cancellando con la prassi i principi sacri di “Dio, patria e Zar”. Uno Zar che aveva abdicato qualche anno prima, sull’onda dei moti popolari cominciati l’8 marzo, quando le operaie di San Pietroburgo guidarono la manifestazione nella capitale. Secondo la Kollontaj, «il “giorno delle donne” del 1917 divenne una data memorabile nella storia. Le donne russe impugnarono la torcia della rivoluzione proletaria e incendiarono il mondo intero.» Destoricizzare una ricorrenza è il modo più efficace per renderla inoffensiva. Significa trasformarla in routine, privarla della sua portata politica e combattiva. Un giorno ogni trecentosessantacinque ascriviamo le donne al rango di vittime innocenti e indifese, oppure “festeggiamo” proferendo auguri astratti, senza interrogarci sul senso di tali gesti. In un paese in cui la discriminazione di genere è istituzionalizzata, in cui a parità di formazione una donna guadagna il 20% in meno rispetto a un uomo, in cui il suffragio femminile è vecchio quanto il microprocessore “intel 4004” (e quanto il World Wide Web nel caso dell’Appenzello Interno) e in cui il partito maggioritario ci invita a espellere stranieri per “proteggere le nostre mogli e le nostre figlie”, non possiamo definire l’8 marzo come una “festa”. Quando gli scaffali dei negozi si riempiranno di mimose ricordiamoci che questo simbolo, scelto da donne, partigiane e comuniste, rispecchia origini povere e contadine. Ricordiamoci che l’8 marzo è un giorno di lotta.
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