Le “liberazioni” dell’Iraq

Gli americani hanno liberato l’Iraq. Ci hanno messo relativamente poco. Nell’operazione il piccolo Ali è stato liberato di due ingombranti braccia, la sua famiglia è stata liberata della casa e suo zio è stato liberato da uno strozzino che lo tallonava da mesi per farsi ridare, con gli interessi, i soldi che gli aveva prestato per comperare una playstation al nipote. Tutto con una sola bomba intelligente. A liberare l’Iraq del suo immenso patrimonio archeologico ci hanno pensato in molti. E non solo gli occasionali tombaroli che poi andavano al mercato con tre o quattro pezzetti di bassorilievo assiro-babilonese. Pare che i trafficanti fossero lì come avvoltoi ad aspettare il momento propizio. Se ne parla molto oggi, sulla scia dell’emergenza, ma la liberazione dall’ingombrante passato artistico è in atto dalla fine dell’Ottocento. È una “joint-venture”, come si suol dire. Non a caso le più imponenti vestigia del patrimonio culturale e architettonico si trovano al Museo Pergamon di Berlino (lì è stata ricostruita in tutte le sue decine di migliaia di tasselli la porta babilonese di Istar, che l’archeologo Koldewey aveva pazientemente smontato e numerato come un immenso Lego) e al British Museum, che sfoggia all’entrata della sua più visitata sezione, dopo gli egizi, i tesori delle città di Ninive e Nimrud. Liberati anche ospedali, uffici e scuole, tanto quelli si possono ricostruire. È apparso chiaro fin dall’inizio che Bush non avrebbe fatto rischiare i suoi ragazzi per salvare queste quisquilie: la regola era, proteggere i pozzi di petrolio e qualche stabile designato. Il resto poteva farsi fottere, tanto poi si ricostruisce. E infatti il pragmatismo degli americani, dote indiscussa, dimostra come non si sia perso tempo in operazioni burocratiche. Già sono al lavoro per rimpiazzare i macchinari distrutti una settimana fa, con altri nuovi di pacca, prodotti naturalmente in Usa. Ma insomma, meno male, la guerra è finita. Tirano un bel fiatone anche le conduttrici del Tg di Rai 2, ché da quando i loro capi hanno inventato la lettura in piedi davanti al bancone, invece che sedute dietro, la loro vita è cambiata. Il disagio traspariva dalle loro facce che sembrano dire: c’è la guerra che accidenti mi metto? Mi ricordavano Franca Valeri, che impacciata e ansiosa guarda dritto nella telecamera e dice: “come me metto? De profilo o de faccia, appena voltata di tre quarti? Il golfino è a posto?” Uguali loro. Espressione contrita e gonna di pelle con le calze nere. I stivaloni neri co ‘e borchie forse è mejo de no he? Cheddite? Cinturone sui fianchi? No eh? Liberate anche loro da questo peso. Viva Bush. O no?

Pubblicato il

01.05.2003 13:00
Cristina Foglia
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