Prendiamo spunto da un fatto che qui potrebbe sembrare fuori posto. Val la pena di parlarne perché è paradigmatico (è cioè un modello, un esempio di quel che capita e denunciamo anche in casa nostra). Warren Buffett è un manitù della finanza, detto anche “l’oracolo di Omaha” (dove vive, in Nebraska). Plurimiliardario, non più giovane (87 anni), osservato in ogni sua mossa perché sembra che non ne sbagli una. È noto e citato per un suo “conglomerato finanziario” (un gruppo che controlla più di 90 società nel mondo, operando in diversi settori: assicurativi, bancario/finanziario, investimenti vari, che si chiama Berkshire Hathaway). Ci interessa per tre motivi. Dapprima perché Buffett, finanziere originale, spesso controcorrente, si è opposto alla riforma fiscale di Trump. Sostenendo che favoriva solo i ricchi come lui che non ne avevano bisogno, concentrava ancora la ricchezza, aumentava disparità e ingiustizie. Nefasta anche per l’economia perché avrebbe riprodotto le cause della crisi, togliendo però possibilità e mezzi di intervento allo Stato. Con dati appena apparsi sul terzo trimestre del suo conglomerato plurimiliardario Buffet offre la prova del nove di quanto sosteneva. Gli utili sono infatti schizzati del 355 per cento, ma un guadagno netto di 29 miliardi di dollari è stato ottenuto in pochi mesi grazie alla riforma fiscale trumpiana che ha fortemente abbassato l’imposizione con il pretesto di favorire l’attività economica. Miliardi che sono l’equivalente di minore entrata e possibilità di manovra ridistributiva per lo Stato. Si ha conferma, in secondo luogo, che gli sgravi fiscali non si sono tradotti in investimenti nell’economia reale. Si arrotano invece su sé stessi per accrescere ancora l’avidità finanziaria. Warren Buffett ha dichiarato, candidamente, che al momento non ci sono né le condizioni né le opportunità di investimenti interessanti, a causa anche delle incertezze create dalla politica trumpiana. Rigurgitando di soldi, li utilizzerà in massima parte per acquistare sue azioni. Quindi per aumentare ancora il valore dei suoi titoli e per la felicità e fedeltà degli azionisti (titoli aumentati in media del 20 per cento all’anno nonostante la crisi; il titolo ha superato lo scorso anno i 300mila dollari, roba da privilegiati superricchi). Spesso l’avversione a quel sistema (sgravi fiscali e meno imposte a chi ha già = maggiore disponibilità di capitali per investimenti = crescita economica = benessere per tutti) finisce su posizioni di etica pubblica e di giustizia (si favoriscono i ricchi, i soldi che non versano allo Stato proporzionalmente alla loro ricchezza, come vuole la Costituzione, sono un accaparramento da parte di pochi del plusvalore creato da tutti). Buffett – che è un singolare finanziere che critica e condanna il sistema in cui si trova – vuol dimostrare che ci sono ragioni più “strutturali” per opporsi alle varie forme di detassazione degli utili, degli alti redditi e dei patrimoni. Un suo argomento classico è che i ceti meno abbienti consumano di più, spenderanno una quota del loro reddito sempre maggiore rispetto a chi può contare su guadagni molto superiori o stratosferici. Se concentri la ricchezza, che finisce ancora nel gioco perverso di accrescere e concentrare altra ricchezza finanziaria, strozzi la domanda e l’economia. Il terzo singolare motivo per cui val la pena citarlo sta quindi nel fatto che nella sua pretesa lotta contro la diseguaglianza sociale il finanziere Buffett si ammanta oltre che di nobiltà morale anche di classico utilitarismo sostanziale: un mondo più giusto, ma più prospero. Anche per lui, d’accordo. Eppure qualche Buffett dalle nostre parti...
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