Eccoci serviti i Nobel per l’economia! Offerti, su misura, si direbbe, alla realtà cantonticinese (ma anche svizzera). Sembrano la contrapposizione con quanto invece pervicacemente ruminano e offrono qualche presidente di partito o uomo di governo. Non è sufficiente limitarsi a rilevare che con questi ultimi premi Nobel per l’economia “non c’è più l’economia di una volta”, anche aggiungendo “per fortuna” (Plusvalore, rubrica economica della Rsi). È ancora schivare l’oliva per non disturbare i manovratori. È vero che si tenta di lasciare l’economia matematizzata, divinizzante, convinta di eliminare l’errore e il rischio, che ha causato parecchi danni (anche a grandi banche svizzere che hanno perso miliardi, ma ora stanno comunque imperversando gli algoritmi allestiti da chissà chi, che è ancora peggio). Che si scopre insomma che i conti vanno fatti con le realtà vissute, cercando lì dentro come si mettono le cose e cogliere le conseguenze di teorie applicate come dogmi. A chi tentava ancora qualche tempo fa questo approccio si rimproverava di fare sociologia e non economia. È spesso il rimprovero che si muove anche ai sindacati quando antepongono la realtà, quella umana, che si vede, al solo conto perdite e profitti imbalsamato o stravolto. Tre utili insegnamenti si potrebbero quindi trarre dalla premiazione a quegli economisti e ai loro lavori. Il primo è l’ammissione implicita del fallimento del cosiddetto consenso (o dogma) neo-liberale in scienze economiche. Che dagli anni Ottanta in poi è stato quello di attribuire ogni colpa di uno squilibrio economico ai salari o al lavoro (ridotto solo a un costo che gonfia i prezzi). Ed è da lì che la cosiddetta moderazione salariale è diventata dogma e costante ricatto dottrinale e politico. E cioè: moderazione (!) come unica condizione per lavorare, essere competitivi, crescere. Quel consenso dottrinale sembra ora essere perlomeno messo in crisi da quella che vien definita “rivoluzione empirica”. Che significa, in parole povere, guardar dentro nella realtà per rendersi conto se le cose stanno proprio come si vuole e si sostiene. Il secondo è la dimostrazione che le cose non stanno proprio come si pretende. Con un’inchiesta a tappeto, su vari anni, dentro la realtà di settori diversi, si sconvolge la teoria neoliberista imperante che ha sempre preteso che ciò che è favorevole al lavoratore è negativo per l’economia e, in generale, per il benessere. Un caso emblematico, quindi: non è vero né dimostrato, ci dicono ora i Nobel, come il neoliberismo sostiene (v. esempio votazione in Svizzera del 2014 sull’introduzione del salario minimo, rifiutata dal 76 per cento dei votanti, sotto minaccia padronale di un crollo generale dell’economia) che l’introduzione di un salario minimo ha un effetto negativo sul lavoro, sull’occupazione, sull’attribuzione del reddito (il salario minimo aumenta i redditi dei lavoratori a basso salario), sulla crescita. Risulta vero il contrario. Il terzo è un’esigenza pratica e politica che emerge dalle pubblicazioni dei premiati e che va rilevata a nostro uso e consumo: si dimenticano sempre nell’applicazione delle politiche fiscali gli effetti, empiricamente valutati, di quelle riforme. Traduciamo: c’è uno studio serio nel Ticino che ci dice quali sono stati sinora gli effetti degli sgravi fiscali ai ricchi, non tanto per i ricchi (persone fisiche o aziende) che ne beneficiano ma, come si pretende, per l’economia cantonale, sapendo oltretutto che sono ormai decenni che si continua a proporre e a procedere con quella solfa-dogma?
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