La casa di Mohamed, quella vera, si trova a Keren, in Eritrea. Per fuggire dalla miseria e dal servizio militare Mohamed quella casa ha dovuto lasciarla due anni fa. Ha fatto un lungo viaggio, ha attraversato il Sudan e la Libia, è stato sequestrato dalle milizie salafite e ha visto i suoi compagni di sventura crepare di fame e freddo accanto a lui. Mohamed ha tenuto duro, ha stretto i denti e finalmente è arrivato in Italia attraversando il mare e rischiando il naufragio. Allertata via radio dagli scafisti, la Marina ha rifiutato di soccorrerli perché «troppo lontani dalla costa italiana». Molte altre imbarcazioni sono passate accanto a quella di Mohamed, facendo come se niente fosse. Finalmente un capitano con un po’ di umanità ha deciso di prenderli a bordo e di sbarcarli al porto di Napoli. Arrivato in Italia, Mohamed ha trovato gesti di solidarietà, ma anche altra violenza. Poiché si è rifiutato di dare le sue impronte digitali, una richiesta non prevista dalla procedura d’asilo abituale, alcuni agenti l’anno colpito con scariche di taser. Una volta rilasciato, Mohamed ha continuato verso nord.


A Milano ha scoperto l’inadeguatezza delle istituzioni italiane che si occupano di accogliere i migranti, quelli poveri evidentemente. Nel Bel Paese ci sarebbero 25.000 posti d’accoglienza, ma nel solo 2014 sono sbarcate sulle coste italiane 170.000 persone. Mohamed dormiva per strada o, nelle notti fortunate, trovava posto in un centro gestito dalla Caritas. Per mangiare faceva la fila assieme ad altre migliaia di persone. Ma quella non era vita. Allora via, ancora una volta, sempre verso nord. Basilea prima, poi un bunker nella Svizzera romanda. Perché nel nostro paese il governo ha deciso che sottoterra vanno tenuti i morti e i richiedenti l’asilo.


Questo perché chi fa le leggi non li vuole quelli come Mohamed. Secondo gli accordi di Dublino, è il paese che per primo ha accolto un rifugiato che deve occuparsi della sua procedura. Punto. Perciò, secondo tali accordi, Mohamed dovrebbe tornare in Italia. Poco importa se dovrà dormire per strada e mendicare il cibo. In Svizzera la barca è piena, dicono. Ma dev’essere una barca veramente piccola, visto che le persone che si trovano in Svizzera per ragioni legate all’asilo politico sono l’1% della popolazione. Un asilante ogni quattro milionari.
Mohamed però di barche piene se ne intende, visto che è proprio su un peschereccio straripante di miserabili che è arrivato in Europa. Ha capito rapidamente che la barca svizzera così piena non è, e un posto l’ha comunque trovato. Assieme a cinque compagni di sventura, il 20 dicembre scorso ha occupato la chiesa di Saint-Laurent, nel centro di Losanna. I sei chiedono di rimanere e che ci sia una moratoria nei rinvii verso l’Italia. Grazie a questo gesto coraggioso, si è creato un sorprendente movimento popolare. A centinaia sono passati dal rifugio per portare solidarietà. Il 9 maggio scorso, millecinquecento persone hanno sfilato a Losanna per chiedere la sospensione dei rinvii previsti dagli accordi di Dublino. La richiesta degli occupanti ha trovato perfino il sostegno della maggioranza del parlamento vodese. Ora si attende con ansia una decisione definitiva del Consiglio di Stato. La vittoria sembra a portata di mano. La storia di Mohamed e i suoi è una lezione di dignità che ci viene ancora una volta dagli ultimi degli ultimi. I dannati della terra che hanno saputo, in modo inconsapevole, fare loro le parole di Franco Fortini e della sua Internazionale dimenticata: “Noi non vogliam sperare niente. / Il nostro sogno è la realtà. / Da continente a continente, / questa terra ci basterà”.

Pubblicato il 

20.05.15
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