Le leggi del boia: si apre il dibattito sui malati mentali condannati a morte negli Stati Uniti

Lo avevano condannato all’ergastolo per aver confessato sei omicidi e un rapimento. Gli avvocati difensori ne proclamavano l’innocenza. Il test del Dna ha dato loro ragione. Dopo aver trascorso gli ultimi 22 anni in un carcere della Florida, Frank Townsend in giugno ha ritrovato la libertà. La sua vicenda ha riscosso l’interesse dell’opinione pubblica anche perché Frank è una persona di 49 anni con il quoziente d’intelligenza di un ragazzo di 8 anni. Ha confessato senza rendersi conto delle conseguenze. Qualcuno dice che lo abbia fatto perché amava i poliziotti. I giudici, in ogni caso, non hanno dato troppo peso alle contraddizioni delle sue confessioni. La sua è una storia emblematica, ma meno rara di quanto si possa pensare. Le cronache dei giornali americani riportano spesso vicende di persone innocenti rilasciate dopo il test del Dna. Dal 1973 ad oggi, oltre 90 condannati a morte sono stati liberati perché vittime di errori giudiziari. Ognuno di loro si è fatto mediamente 8 anni di carcere, ma naturalmente c’è chi ha dovuto aspettare molto di più. Come Peter Limone che ha trascorso dietro le sbarre 33 anni per un crimine che non aveva commesso. Il test del Dna non solo libera innocenti, ma mette a nudo anche le debolezze del sistema giudiziario, che ha talvolta troppa fretta di trovare un colpevole. Ne sa qualcosa Jeffrey Pierce, recentemente liberato dalle prigioni di Oklahoma City dopo 15 anni di carcere e una condanna all’ergastolo per violenza carnale. La condanna venne inflitta sulla base della testimonianza di una poliziotta che aveva effettuato le analisi. Le capacità profesionali dell’agente sono state ora messe in discussione: c’è il sospetto che altre persone possano, per colpa sua, aver subito la stessa ingiustizia. Per questo le autorità di Oklahoma City hanno deciso di estendere il test del Dna a molti altri detenuti: tra di loro vi sono 12 condannati a morte e 11 giustiziati. Davanti all’infittirsi di questi casi c’è chi ha deciso di correre ai ripari. L’anno scorso il governatore dell’Illinois, George Ryan, ha decretato nel suo Stato una moratoria delle esecuzioni, dopo aver constatato che negli ultimi 13 anni 13 condannati a morte erano stati liberati per non aver commesso il reato per il quale erano stati dichiarati colpevoli. Per ora questo è un esempio isolato. Molti Stati si interrogano invece sull’opportunità di mandare a morte persone con un quoziente d’intelligenza paragonabile a quello di un bambino di sei o otto anni. Dal 1976 ad oggi, 35 persone con un quoziente d’intelligenza infantile sono stati giustiziate. Si calcola che negli Stati Uniti 200-300 delle 3700 persone che sono nel braccio della morte siano ritardati mentali. John Paul Penry, condannato a morte nel Texas, non sa né leggere né scrivere, non conosce i giorni della settimana e nemmeno i mesi dell’anno. Jerome Holloway, condannato a morte in Georgia, non sa decifrare l’orologio e nemmeno recitare l’alfabeto o dire in che Stato abita. C’è chi non è in grado di seguire un processo o di capire le conseguenze delle confessioni che fa. È stato il caso di Earl Washington, che nel corso dell’interrogatorio ha confessato di aver rapito e ucciso una donna in Virginia. Nel 1984 è stato condannato alla pena capitale. Sedici anni dopo, il test del Dna ha provato la sua innocenza e in febbraio è stato rimesso in libertà. Davanti a storie raccapriccianti come queste molti stati hanno deciso di rivedere le loro leggi. Attualmente l’esecuzione dei ritardati mentali è vietata in 15 dei 37 stati che applicano la pena di morte. Lo stesso presidente George W. Bush, che ha firmato 152 condanne a morte nei sei anni che è stato governatore, prima di partire per il suo recente viaggio in Europa ha dichiarato che i ritardati mentali non dovrebbero mai essere giustiziati. Eppure, solo pochi giorni dopo il governatore del Texas ha posto il suo veto ad una legge che voleva bandire queste esecuzioni rilevando che già esiste una legge che protegge le persone insane di mente. Se il Texas ha detto niet, in Florida il fratello del presidente Jeb Bush ha firmato una normativa analoga che bandisce le pene capitali per persone ritardate. Negli Stati Uniti si mandano a morte ritardati mentali e persino persone schizofreniche. È stato il caso di Jay Scott che in giugno ha ricevuto l’iniezione letale nello Stato dell’Ohio. A niente sono valse le richieste di sospensione avanzate, tra l’altro, anche dal premier svedese, Goran Persson, presidente di turno dell’Unione europea. Negli Stati Uniti la pena di morte non risparmia nemmeno le persone che hanno commesso i loro crimini quando erano minorenni. Attualmente 73 persone sono nel braccio della morte per aver ucciso quando avevano 16-17 anni. Altre 17 sono già state giustiziate da quando nel 1976 è stata rimessa in vigore la pena capitale. Negli Stati Uniti i giovani criminali sono trattati sempre più spesso alla pari degli adulti, soprattutto se hanno commessso un omicidio. I loro processi non si svolgono a porte chiuse, ma davanti alle telecamere che trasmettono in diretta, come ha fatto la Cnn, i dibattiti processuali. È stato il caso di Nathaniel Brazill, un tredicenne di colore, che ha ucciso in Florida un insegnante di inglese dopo essere stato sospeso dalla scuola per aver fatto esplodere palloncini pieni d’acqua. Pochi in America si scandalizzano vedendo simili processi e in Florida è toccato ad un pastore guidare l’opposizione e denunciare l’ingiustizia chiedendo che i minorenni siano trattati come tali e non alla pari degli adulti. Il colore della pelle del condannato a morte troppo spesso è nero. Anche questo è un tema che viene dibattuto sempre più. È ormai appurato che la condanna a morte viene inflitta con più frequenza a persone di colore o a membri di minoranze etniche. I neri sono poco più del 12 % della popolazione, ma ben il 43 % delle persone che si trovano nel braccio della morte hanno la pelle scura contro il 46 % con la pelle bianca (71 % della popolazione). L’opinione pubblica davanti a queste cifre comincia a chiedersi perché. Si scopre allora che molti condannati a morte non hanno potuto permettersi un avvocato. Si sono dovuti accontentare di un difensore d’ufficio che è pagato malissimo e lavora quando e come può. "La qualità della difesa legale in questo paese è semplicemente orribile" afferma il direttore del "Southern Center for Human Rights". Gli Stati Uniti si sono scordati di applicare anche accordi internazionali. Proprio nei giorni scorsi la corte internazionale di giustizia dell’Onu all’Aja ha condannato gli Stati Uniti per aver violato la convenzione di Vienna nel caso di due fratelli tedeschi (Karl e Walter LaGrand), residenti da anni negli Stati Uniti, che non erano stati informati del loro diritto di avvalersi dell’assistenza del consolato tedesco. I due sono stati avvisati troppo tardi, quando i ricorsi erano già scaduti, e ciò ha reso impossibile il rinvio delle esecuzioni, avvenute in Arizona nel 1999. Le lacune del sistema giudiziario sono emerse anche in un recente rapporto preparato per conto della commissione giustizia del Senato da un gruppo di esperti, il cosiddetto "Comitato per la prevenzione delle esecuzioni errate". "Il traguardo deve essere la giustizia non l’esecuzione" ha affermato Williams Session, ex giudice e direttore dell’FBI ai tempi di Reagan e Bush, presentando lo studio. "Quello che vogliamo è un processo giusto e la condanna del colpevole". Il rapporto contiene una lunga lista di raccomandazioni per impedire che una persona venga ingiustamente condannata a morte. In particolare chiede di fissare degli standard minimi per gli avvocati della difesa e di pagarli in modo adeguato. Se un condannato ha avuto una difesa scadente deve poter ottenere facilmente un nuovo processo. C’è poi la proposta di esonerare dalla pena capitale i ritardati mentali e gli assassini minorenni. I giurati devono essere informati della possibilità di infliggere al posto della pena capitale l’ergastolo senza possibilità di riduzione della pena. Il rapporto propone di conservare i risultato del test del Dna, che sia possibile ricorrere a questo esame anche dopo la condanna dell’imputato e infine di rendere più facile la riapertura dei processi nei casi in cui emergono nuovi fatti grazie a questa analisi. II risultato di questo studio conferma le grandi linee di un disegno di legge, l’"Innocence Protection Act", presentato dal senatore democratico Patrick Leahy. Questa legge, osteggiata da più parti, è stata rispolverata in questi giorni dopo che i democratici hanno riconquistato la maggioranza al Senato. L’obiettivo della normativa è di rafforzare la difesa degli imputati e di garantire loro accesso al test del Dna. Chiede anche di fissare degli standard per garantire agli imputati senza mezzi una difesa adeguata. Per gli Stati che non rispettano i criteri è prevista la perdita dei fondi federali stanziati per le prigioni o per altri progetti. Mentre il parlamento discute, nelle camere della morte si continua a giustiziare. L’esecuzione più famosa è stata quella di Timothy McVeigh. È stata eseguita l’11 di giugno. Da allora altre cinque persone hanno ricevuto l’iniezione letale portando così a 38 le esecuzioni applicate dall’inizio dell’anno. Più di una alla settimana. Gli americani si consolano constatando che molto probabilmente quest’anno si ucciderà meno dell’anno scorso (85 esecuzioni) e sicuramente meno del 1999 quando si toccò l’apice delle 98 esecuzioni

Pubblicato il

06.07.2001 04:00
Anna Luisa Ferro Mäder