Si parla sempre più spesso di una crisi dei valori identitari all'origine di certe devianze sociali che stanno macchiando l'immagine del nostro paese. Attenzione – scrive Giancarlo Dillena in un intelligente editoriale del 19 febbraio – «la crisi dei valori identitari non deve diventare un coperchio per tutte le pentole. Né un alibi. Né, soprattutto, deve servire a ridurre le responsabilità individuali di chi assume comportamenti devianti fino alla violenza».  
Ha ragione Dillena? Sì, fino a qui. Peccato che poi si lasci prendere la mano da un discorso apparentemente ispirato a quella che suole chiamarsi equidistanza. Dove i giovani fuori dalla norma sarebbero gli anti-global, quelli che difendono a oltranza la "diversità culturale", e quelli che rifiutano i nostri valori identitari sulla base di scelte ideologiche.   
Torno da un viaggio in Messico, dove è più facile misurare gli effetti della catastrofe provocata dal neoliberismo. L'aggressione esercitata dalla tirannia di quello che per alcuni si chiama fascismo economico, è insostenibile. Per chi vive nell'inferno di Città del Messico come per chi ci passa non intruppato in viaggi organizzati. Il viaggio a Mexico-City è un'esperienza violenta che può portare a soccombere anche il più ostinato del "turista fai da te". Alla fine ne esci suonato come un pugile.
Per tentar di capire, per metabolizzare l'esperienza, occorre tornare a casa. Occorre leggere. Anche l'editoriale del Corriere del Ticino può essere utile; ma più ancora il domenicale del Paìs. Il quale ospitava, il 17 febbraio scorso, una pagina di un diario di viaggio nella foresta Lacandona di John Berger: scrittore, saggista, poeta e critico d'arte inglese, che ha reso visita al subcomandante Marcos. Titolo della lettura del Paìs: Appunti per un ritratto. Quanta umanità nelle parole dello scrittore inglese!
Grazie all'articolo di Berger mi si è ravvivata negli occhi e nel cuore la memoria dei "murales" di Diego Rivera, che sono andato a vedere al Palazzo Nazionale di Città del Messico. Mille anni di storia dolorosa della nazione messicana che Berger definisce "un gigantesco campo de promesas rotas". Dove si leggono gli infiniti tipi di schiavitù, ogni volta diversa, subìti dalla nazione messicana e accompagnati da repressioni, discriminazioni e forme vecchie e nuove di povertà.
Certo la capitale del Messico è una città esagerata, unica, che si muove, consuma e cammina senza fermarsi mai. È una città infernale dove sei aggredito dalla mestizia in tutte le sue forme. Ma quante sono le Città del Messico in America Latina e nei paesi poveri?
Di quali anticorpi sarà necessario munire il "turista fai da te"? È vero che è sempre stata così, come qualcuno mi suggerisce, quasi a dare un carattere di ineluttabilità all'aggressione del neoliberismo? Mi rifiuto di crederlo. Rivendico un ritorno alle ideologie, caro Dillena. Non per malcelata nostalgia, come lei sostiene. Ma per poter continuare a distinguere il bene dal male. Per non dover soccombere. Per recuperare quegli anticorpi che impediscano all'indignazione di trasformarsi in commozione.

Pubblicato il 

29.02.08

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