Domani, sabato 2 dicembre, l'assemblea dei delegati di Unia nominerà il successore di Vasco Pedrina alla copresidenza del sindacato. Tutto lascia intendere che si tratterà di Andreas Rieger, il "delfino" di Pedrina e candidato unico proposto dalla direzione di Unia a garantire una certa continuità. Ma domani sarà anche l'occasione per ringraziare Pedrina per l'enorme lavoro svolto in 15 anni passati ai vertici del movimento sindacale svizzero. Un movimento che grazie anche ai suoi impulsi è uscito rinnovato e rivitalizzato da una crisi che sembrava irreversibile. E allora questo è il momento giusto per parlare anche di questi anni intensi. Lo facciamo in particolare con un'intervista molto privata allo stesso Pedrina e con le impressioni di alcune persone che in questo periodo hanno incrociato il loro cammino con il suo.


Vasco Pedrina, nell'ultima frase della scheda allestita sul suo conto dalla polizia politica si legge: "a parte il suo spiccato impegno sociale non si è fatto notare in alcun modo". Lei è uno svizzero modello?
(ride) Così dev'essere, se la polizia politica dopo 16 anni di osservazione è giunta a questa conclusione.
A tutt'altra conclusione giunge l'ex presidente dell'Associazione padronale svizzera Peter Hasler. Recentemente alla radio l'ha definita una delle figure più importanti della scena sindacale svizzera. Secondo Hasler lei è sempre stato perfettamente informato, duro ma chiaro nelle posizioni, e non ha mai tramato dietro le spalle. Una lode così da parte padronale non è sospetta?
Quando nel 1991 divenni presidente del Sindacato edilizia e industria (Sei) dei sindacati si diceva che fossero complici dei padroni. Il lungo periodo di pace del lavoro aveva portato ad una malsana prossimità. E questa aveva recato molti danni alla credibilità dei sindacati presso la loro base. Per questo mi sono sempre preoccupato di mantenere la necessaria distanza dai datori di lavoro. Ho sempre considerato molto importante la mia integrità personale, ma anche quella dell'organizzazione. Mi sono impegnato con coerenza per gli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici. Ma ho anche cercato di rivolgermi ai datori di lavoro con rispetto. Si vedeche questo Hasler l'ha apprezzato.
Lei si rifiuta di dare del tu ai padroni anche dopo una lunga frequentazione. O di bere una birra con loro alla fine di una trattativa. Non è forse un po' troppo coerente?
No. Quando ci si da del tu si cambia una relazione. Quando come lavoratore o anche in politica si difendono interessi diversi rispetto a chi ci sta di fronte, qualsiasi forma di distanza è soltanto di aiuto. E non credo nemmeno che politicamente avrei ottenuto di più se avessi dato del tu ai padroni.
Quali sono stati i più grossi successi della sua carriera?
Certamente l'abolizione dello statuto dello stagionale, per la quale mi sono impegnato molto. Poi l'ottenimento del pensionamento a 60 anni nell'edilizia dopo uno sciopero nazionale. Questa è una conquista storica, paragonabile con l'introduzione della prima settimana di vacanze nel 1944 o la tredicesima mensilità negli anni '70. Il merito principale di questo successo va al collega Hans-Ueli Scheidegger, ma anch'io ho fatto la mia parte. In particolare per la costruzione del movimento. Infatti sono diventato presidente sindacale all'inizio della lunga crisi degli anni '90, e capii subito che il sindacato così com'era non avrebbe potuto sopravvivere a quella crisi. Dopo decenni di pace del lavoro e di alta congiuntura sia l'apparato sindacale che i membri erano diventati inerti. La capacità di mobilitazione era giunta al suo punto più basso. Il compito della mia generazione di sindacalisti e sindacaliste è stato dunque di trasformare questo sindacato dell'alta congiuntura in un sindacato per tempi più duri. Abbiamo dovuto diventare nuovamente capaci di mobilitarci, di scioperare e di vincere le votazioni popolari. Credo che abbiamo realizzato non poco di tutto ciò, ed è questo il mio terzo importante successo. E di questo sono molto fiero, perché ad esempio il massimo ideologo dell'Ubs Peter Buomberger all'inizio degli anni '90 aveva già dato per morti i sindacati.
Lei è un tipico sessantottino ed è stato il primo presidente sindacale che non aveva in tasca la tessera del Partito socialista (Pss). Che importanza ha avuto la sua origine politica per ciò che poi ha raggiunto?
È stata centrale per due motivi. Primo: il '68 mi ha insegnato che lo squilibrio fra lavoro e capitale è molto grande anche in Svizzera. Decisi quindi di impegnarmi in futuro anche professionalmente per il fattore lavoro e contro questo squilibrio. Secondo: il '68 mi ha insegnato che cambiamenti positivi in una società sono possibili soltanto con un'azione collettiva, dunque con movimenti sociali. La solidarietà non la si impara sui libri, ma in conflitti del lavoro e in azioni. La mia generazione di sindacalisti e sindacaliste s'è sempre mossa in questa logica. Era una logica del tutto diversa da quella del Pss, che già all'epoca funzionava nella logica del consenso del sistema politico svizzero.
Il lavoro è anche la sua vita. Perché lavora 60 ore alla settimana?
Lavoro 40 ore alla settimana. Le 20 a 30 ore in più le uso per l'impegno sociale e politico. Non credo che senza un grande sforzo avrei raggiunto gli obiettivi che mi ero imposto. Ma per me il lavoro è sempre stato anche un piacere. Anche in tempi difficili ho sempre provato orgoglio e piacere quando eravamo riusciti a condurre a termine con successo uno sciopero o una campagna politica.
Si immagini che tutti lavorassero come lei. Che società sarebbe?
Una società che non avrebbe molto senso, direi. E non è nemmeno necessario che tutti lavorino così tanto. Nella società per la quale lotto ci sarà sicuramente meno lavoro remunerato per tutti. Penso ad esempio ad una settimana di 32 ore. Nel contempo però mi auguro che possibilmente molte persone si impegnino politicamente e socialmente. Perché in definitiva soltanto una società solidale ha davvero un futuro.
Figlio di un panettiere, fin da bambino lei ha lavorato nella ditta dei genitori. La sveglia era alle 3 o alle 4 del mattino. Quanto severa (quasi protestante) è stata la sua educazione cattolica?
Mia nonna mi ha inculcato i dieci comandamenti. Mio padre i valori della Rivoluzione francese. Entrambi mi hanno fatto capire che un lavoro fatto bene può dare soddisfazione. E così era: il bello della mia gioventù è stato che non mi sono mai annoiato. Nella panetteria potevo parlare con gli impiegati italiani e spagnoli di mio papà. Sono stati contatti molto istruttivi.
Eppure era lavoro minorile!
(ride) Ma era un'impresa famigliare. L'aiuto dei sei figli ha permesso ai nostri genitori di darci da mangiare.
Che atteggiamento ha ora con i suoi figli? Li manda a lavorare?
Sono ancora troppo giovani. Il mio figlio quattordicenne ha fatto quest'estate un primo stage lavorativo. Sono assolutamente d'accordo che i giovani passino una parte delle loro vacanze a fare esperienze nella vita lavorativa. Infatti quel che mi preoccupa è che molti giovani fanno fatica a capire che cosa vogliono fare. Per questo stanno sempre seduti davanti al computer o fanno altre cose pericolose.
Perché pericolose?
Lo sentiamo tutti i giorni: problemi d'apprendimento a scuola, violenza, aggressioni, alcol, droghe eccetera.
Invece di starsene davanti al computer lei da ragazzo è stato attivo in parrocchia. Ed è lì che è avvenuta la sua prima politicizzazione, ad opera di un giovane prete socialista italiano. Come mai si è interessato così presto ai temi della morale e della politica?
A casa parlavamo sempre di politica. La prima discussione politica di cui ho un ricordo cosciente è stata quella sull'invasione sovietica dell'Ungheria. Avevo 6 anni. Da quel momento, a poco a poco ma con crescente convinzione, mi sono sempre più confrontato con questioni politiche. A 17 anni ho aiutato ad organizzare uno sciopero alla Scuola cantonale di commercio di Bellinzona a favore di un maggiore coinvolgimento degli studenti nelle decisioni. È stato il mio primo sciopero. Poi è venuto il '68, il marxismo e il trotzkismo…
… una religione al posto di un'altra. O è un'accusa troppo facile?
La sua osservazione non è del tutto sbagliata. In rapporto all'atteggiamento verso la vita e all'impegno nella società il cattolicesimo ha certamente dei paralleli con il marxismo e il trotzkismo. Solo che per questi ultimi la teoria non diverge così tanto dalla pratica. Finora nella mia vita mi sono sempre sforzato di vivere come predico. E viceversa. Non credo che si possa dire proprio la stessa cosa della Chiesa cattolica. Questo principio mi ha forse portato ad una certa severità verso di me, ma anche nei confronti delle colleghe e dei colleghi nel sindacato. È possibile che a volte sono stato troppo severo, ma senza questo atteggiamento coerente non avrei mai raggiunto i miei obiettivi.
Lei è un asceta?
Ho certamente delle inclinazioni ascetiche, ma non sono un asceta. Amo anche il lato bello e piacevole della vita. In passato ci ho dovuto rinunciare spesso. È uno dei motivi per cui ora lascio la copresidenza di Unia.
Una volta lei ha detto di aver purtroppo scoperto tardi che uno dei suoi punti di forza è la sua capacità di suscitare emozioni positive. Perché se n'è reso conto così tardi?
Avevo detto che è soltanto con il tempo che avevo pienamente compreso la portata della dimensione emotiva e simbolica del lavoro sindacale. Se potessi ricominciare tutto dall'inizio ci sono due cose che farei diversamente. Darei più importanza a questa dimensione emotiva. E lavorerei più sistematicamente alla formazione dei quadri.
Molti lavoratori edili la amano, quasi la adorano. Qui c'entrano anche delle grosse emozioni.
Quando fui nominato presidente sindacale la Neue Zürcher Zeitung mi definì "intellettuale in filigrana" e dubitò che potessi trovare un punto di contatto con i lavoratori edili. Il fatto è che  l'ho trovato. Credo che i soci mi stimano per il mio modo non populista di parlare chiaro, per tutte le vittorie e le sconfitte che abbiamo vissuto assieme. E certamente anche perché so mostrare emozioni.
Specialmente se parla italiano…
Uno dei miei grossi errori è che non ho mai davvero imparato il tedesco. Ancora oggi faccio fatica ad esprimere sentimenti in tedesco. Ma grazie a dio gli svizzeri tedeschi trovano che noi ticinesi siamo simpatici. E comunque i molti italiani e le molte italiane in Unia preferiscono sentir parlare in italiano.
Lei è nato ad Aarau ed è cresciuto in Ticino. Ha studiato a Friburgo e vive dalla fine degli studi nella Svizzera tedesca. È più ticinese o svizzero tedesco?
Non parlo Schwytzerdütsch, ma da ragazzo dovevo ascoltare con mio papà la musica popolare svizzero tedesca o il comico Emil. In questo senso sono un frontaliere, una sorta di migrante. Ciò ha vantaggi e svantaggi, si è un po' apolidi ma nel contempo di casa ovunque. In Unia, dove la maggior parte dei membri sono migranti, è stato di certo un vantaggio.
La sua storia politica è una storia di e con uomini. L'unica donna che appare nella sua biografia professionale è Christiane Brunner, con la quale ha copresieduto l'Unione sindacale svizzera (Uss). È un caso?
Nella mia vita le donne hanno sempre avuto un ruolo centrale – compresa la mia partner di oggi. Sono cresciuto con la mia sorella gemella Carla e con tre altre sorelle. A scuola noi maschi siamo stati per anni in minoranza. E anche nel movimento del '68 ho sempre lavorato assieme a delle donne. C'è stata ad esempio la mia prima moglie, che era una straordinaria sindacalista di sinistra alla Vpod. Purtroppo è stata sempre più emarginata dal blocco maschile che all'epoca era alla testa della Vpod finché s'è ritirata. Che gli uomini fossero dominanti nel Sindacato edilizia e legno (Sel) e nel suo successore, il Sei, non dovrebbe sorprendere per un sindacato edile. O no?
Del movimento femminista ha detto una volta che è entrato improvvisamente nella sua vita e che l'ha scossa in maniera dolorosa ma anche benefica. Perché dolorosa e perché benefica?
La mia partner di allora veniva anche lei dalle montagne e aveva avuto un'educazione simile alla mia. Un giorno improvvisamente diventò femminista e cominciò a partecipare a gruppi di autocoscienza. E di colpo nella nostra relazione il mondo cambiò: tutta la frustrazione raccolta in secoli di sottomissione delle donne si rovesciò sul nostro tavolo da pranzo. Era inquietante, perché ci si trovava confrontati con il proprio machismo. Devo dire che all'epoca mi sono sentito anche un po' trattato male a torto. Pure a livello politico il movimento femminista ha smosso le acque: per esempio ci si è posti la domanda sull'importanza politica della parità fra uomo e donna. Questo è stato certamente anche benefico. Come benefico è stato capire che un vero uomo può anche piangere. Che, come mi aveva sempre detto mia mamma, non è un dramma.
Alcune voci critiche sostengono che se lei avesse promosso la parità fra i sessi con la stessa decisione con cui ha affrontato altri temi, oggi la direzione di Unia non sarebbe così dominata dagli uomini.
Forse avrei potuto fare di più. E di ciò che abbiamo ottenuto non è che sono particolarmente contento. Però ci è voluto anche molto tempo per trovare le donne giuste da mettere ai vertici della gerarchia. Lei adesso pensa sicuramente che sono un macho, ma davvero non è facile trovare le donne giuste. Perché siamo onesti: le donne che vogliono imporsi ai vertici devono in definitiva essere migliori dei loro colleghi uomini. A maggior ragione quindi mi fa piacere che nel frattempo siamo riusciti a inserire tutta una serie di sindacaliste, che nei prossimi anni potranno giocare un ruolo importante anche ai vertici di Unia. Spero che chi mi succede alla testa del sindacato farà meglio di me e della mia generazione di uomini.

Pubblicato il 

01.12.06

Edizione cartacea

Nessun articolo correlato