Per le donne di questo paese il 2021 si apre nel peggiore dei modi. E non solo perché sono le prime a essere colpite dagli effetti nefasti sul mondo del lavoro e sulla vita familiare di una pandemia che non accenna ad allentare la morsa. Nell’anno del cinquantesimo anniversario della (faticosissima) conquista del diritto di voto (era il 7 febbraio 1971) e sempre in attesa che si realizzi la promessa politica, risalente alla medesima epoca, che anche le donne possano vivere della loro pensione durante la vecchiaia, ecco un ennesimo grave affronto: un progetto di riforma dell’AVS tutta a spese delle donne e che va esattamente nella direzione opposta: verso uno smantellamento dei diritti e una riduzione delle rendite. Ma c’è anche una buona notizia: un appello sindacale urgente, lanciato all’indomani di un’ennesima provocazione da parte di una politica sempre più lontana dal paese reale, ha raccolto in una settimana oltre 300mila sottoscrizioni. È la prima volta che in Svizzera si ottengono tante firme in così poco tempo. È un segnale forte verso il Parlamento che deve prendere le decisioni e un segnale incoraggiante in vista delle prossime inevitabili battaglie su questo terreno. (si veda articolo L'Avs va rafforzata, non smantellata) L’indicazione è chiara: nessun innalzamento a 65 anni dell’età pensionabile delle donne, bensì un rafforzamento dell’AVS che elimini le insopportabili discriminazioni di genere insite nel sistema pensionistico elvetico e che alle donne costano un terzo di rendita di vecchiaia in meno rispetto agli uomini. C’è insomma bisogno di riforme che aumentino le rendite e non certo l’età di pensionamento, come invece si ostinano a sostenere (contro ogni logica e dopo già due bocciature in votazione sullo stesso tema) il Consiglio federale e il suo ministro socialista Berset, la destra e il padronato. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la decisione della competente commissione del Consiglio degli Stati, la quale, oltre a confermare l’impostazione generale della riforma AVS 21, l’ha resa ancora più amara: essa ha massacrato persino le cosiddette “misure di compensazione” per attutire gli effetti sulle generazioni di donne che per prime cadranno nel nuovo regime pensionistico. Era solo il classico “zuccherino” pensato dal Consiglio federale per addolcire una pillola amarissima, ma anche questo è stato ritenuto un gesto di eccessiva generosità. Di qui la reazione indignata delle centinaia di migliaia di persone che hanno firmato e stanno tuttora firmando l’appello dell’Unione sindacale, per chiedere il riconoscimento dei bisogni reali delle persone e delle donne in particolare e la realizzazione di progressi concreti. Rivendicazioni che sono sul tavolo da decenni e che sono state tra l’altro al centro della storica mobilitazione del 14 giugno 2019 che ha coinvolto oltre mezzo milione di donne e di uomini solidali. Donne e uomini che in queste settimane sono confrontate con un’altra battaglia: quella contro l’iniziativa in votazione il 7 marzo per il divieto di dissimulazione del volto. Un’iniziativa liberticida e discriminatoria nei confronti delle donne musulmane, uno strumento per fomentare paure e pregiudizi nei confronti di un gruppo sociale (oggi toccherebbe alla comunità islamica e domani ad altri) che nulla ha a che fare con la liberazione delle donne come pretendono i suoi fautori, che in gran parte sono gli stessi che tagliano loro le pensioni.
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