Le contraddizioni di Christine

Pandemia e guerra in Ucraina hanno sconvolto l’economia mondiale. Hanno anche messo in evidenza una realtà ritenuta connaturale e acquisita: le profonde interdipendenze economiche createsi negli ultimi anni tra nazioni, regioni, continenti. Non solo per scelte politiche (libero scambio, mondializzazione), ma per la stessa evoluzione, tecnologica o manageriale, dell’economia. Da quelle persino bislacche (contare sulla produzione cinese per disporre a sufficienza di mascherine), a quelle diventate condizione per vivere, lavorare, produrre, consumare (dipendenza energetica condizionante e difficilmente sostituibile dal gas russo, ma anche dal cobalto o dal vanadio russi, essenziali per batterie, droni, robotica oppure dal grano, dal mais, dagli oli vegetali e dai fertilizzanti ucraini, ma persino dai cablaggi elettrici, indispensabili per l’industria automobilistica, di cui l’Ucraina è il principale produttore al mondo).


La presidente della Banca Centrale Europea, già direttrice del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, in un discorso che sembra esprimere il grande dubbio amletico in cui ci rovelliamo ora, si è posta l’interrogativo che prima o poi doveva arrivare: allora, mondializzazione o demondializzazione?


Il Vecchio Continente è quello che più si è lasciato conquistare dalla mondializzazione, aprendo le frontiere (la Svizzera per la sua stessa condizione e storia ha il libero scambio nel sangue ed è oggi tra le nazioni più globalizzate). In vent’anni la parte del commercio nel prodotto interno lordo europeo è passata dal 30 al 54 per cento, un raddoppio. Gli Stati Uniti, sebbene stimolatori della dottrina liberoscambista, sono stati più... protezionistici, marciando quasi sul posto (dal 23 al 26 per cento). I vantaggi ci sono stati, commenta Lagarde: sono calati i prezzi delle importazioni e dei beni a beneficio di tutti. Non aggiunge: sono aumentati enormemente i profitti delle multinazionali, le disparità regionali e di reddito, la svalutazione del lavoro in nome della competitività. Ammette: la mondializzazione trionfante sembra finita perché i vantaggi delle frontiere aperte funzionano solo «in un periodo di stabilità economica e geopolitica». Che non c’è più.

 

Due sarebbero le fragilità: le catene logistiche con il “just in time” (la capacità di produrre in armonia con la domanda), con le conseguenti interdipendenze, hanno reso le imprese più vulnerabili, basta un granello per ingrippare tutto; l’economia dipende sempre più da materie prime essenziali che provengono da paesi in continua tensione con l’Occidente (vedi appunto la Russia oppure la Cina, che controlla oggi più della metà delle miniere di terre rare e l’85 per cento del loro raffinamento). In questo contesto, la demondializzazione torna opzione fondamentale, di sovranità e sicurezza. Che è poi un ritornare nelle proprie mura, ma con enormi costi (negli Stati Uniti si è ad esempio calcolato che solo una industria di semiconduttori esclusivamente americana implica un maggior costo di mille miliardi di dollari).

 

Che fare? La risposta di Christine Lagarde è la sintesi della contraddizione che si sta vivendo: difendere la mondializzazione «i cui benefici sono indiscutibili», ma ridurre «le vulnerabilità strategiche» (dell’Europa). Che significa «regionalizzare il commercio»? O accettare prezzi di produzione più elevati o ridurre ancora i costi del lavoro o i consumi o accettare la sobrietà (dei poveri) o avere fede solo nella tecnologia? O credere ancora (altra contraddizione) che la miglior leva per l’economia rimane sempre il prepararsi alla guerra (si è infatti cominciato con l’aumento delle spese per riarmarsi, anche in Svizzera)?

Pubblicato il

05.05.2022 12:47
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