Le armi della pace

Il prossimo 10 giugno, il popolo svizzero è chiamato ad esprimersi su due modifiche della legge federale sull’esercito e sull’amministrazione militare. La prima concerne l’invio di soldati armati in missioni all’estero. La seconda, la cooperazione internazionale in materia d’istruzione. Consiglio federale e Parlamento invitano i cittadini che si recheranno alle urne ad approvare entrambe queste modifiche contro le quali sono stati lanciati dei referendum. Le differenze sostanziali tra la legge attuale e la variante in votazione stanno nel genere di missioni autorizzate e nel tipo d’armamento consentito. Attualmente la legge permette a soldati svizzeri di recarsi all’estero per partecipare a missioni internazionali di "promozione della pace", purché l’impiego sia circoscritto ad operazioni di "mantenimento della pace" (Art. 66, 1) e l’armamento limitato all’autodifesa (Art. 66, 3). Nel testo della nuova legge tali limitazioni scompaiono e si parla genericamente di "promozione" (Art. 66, 1) e "sostegno" della pace (Art. 66, 3), mentre si autorizza il Governo a concedere alle truppe l’armamento necessario non solo per propria difesa ma, più in generale, per assolvere i compiti loro assegnati (Art. 66a, 1). Per il Consiglio federale, si tratta di ampliare e consolidare un impegno militare a favore della pace, complementare a quello civile ed in perfetta sintonia con la politica di sicurezza. La partecipazione ad operazioni militari di "promozione della pace" s’iscrive nella miglior tradizione di solidarietà elvetica che da tempo ispira la politica estera della Confederazione. Contribuendo a comporre i conflitti, questo genere d’intervento serve inoltre gli interessi del Paese. L’invio di militari elvetici ad arginare crisi e conflitti in altre regioni del mondo, per quanto apparentemente lontane riduce, secondo il Governo, il rischio che questi eventi si estendano sino a minacciare militarmente la Svizzera, e che nuove ondate di profughi vengano a bussare alle nostre porte. Contestando la disinvoltura con la quale Governo e Parlamento hanno aperto gli arsenali e sostituito il concetto di "mantenimento della pace" con quello di "sostegno della pace", il Gruppo per una Svizzera senza esercito e numerose altre persone, organizzazioni pacifiste, partiti della sinistra (Partito Socialista Ticinese, Partito del Lavoro, Verdi, Donne socialiste) e sindacati (Sei, Ssp-vpod), hanno denunciato l’ambiguità delle nuove disposizioni in materia di missioni all’estero, dato vita al "Comitato referendario per una politica di pace" e raccolto circa 55.000 firme. Nel dibattito sull’invio di soldati in missione all’estero, i sostenitori della nuova legge tendono a minimizzare le differenze tra quelle che nel linguaggio comune paiono semplici sfumature tra due espressioni generiche dal significato pressoché equivalente, ma che in un articolo costituzionale rivestono ben altra importanza. Nel diritto internazionale, la Carta delle Nazioni unite distingue tra "mantenimento della pace" (peacekeeping), ossia assicurare un processo di pace definito da un accordo politico tra le parti in conflitto, e "imposizione della pace" (peace enforcement), quale azione militare tesa a pacificare un paese o una regione anche contro la volontà di uno o più contendenti. Nel messaggio che accompagna il testo di legge, il Consiglio federale riconosce che l’espressione "operazioni di sostegno della pace" comprende entrambi questi due concetti. Ricorda però anche che l’articolo 66a, capoverso 2, del testo di legge posto in votazione vieta esplicitamente la "partecipazione ad azioni di combattimento di imposizione della pace". Anche in questo caso, mentre i sostenitori della revisione, affidandosi al buon senso di Governo e Parlamento, vi leggono una garanzia sufficiente ad evitare che la Svizzera partecipi ad azioni di guerra, il Comitato referendario denuncia l’ambiguità di una clausola che vieta sì, il coinvolgimento nei combattimenti, ma non esclude la partecipazione ad altre fasi delle operazioni di "imposizione della pace", come possono essere ad esempio quelle di sostegno logistico o le missioni di ricognizione. La fiducia nelle istituzioni è una bella cosa, ma considerato che, pur escludendo esplicitamente la partecipazione ad azioni di combattimento, le nuove disposizioni permettono alla Svizzera di partecipare a missioni di "imposizione della pace", dunque a conflitti armati dato che non tutte le parti che hanno preso parte al conflitto sono disposte a sospendere le ostilità, e che la nuova legge consente l’impiego di qualsiasi arma, aviazione compresa, è legittimo chiedersi in che modo Consiglio federale e Parlamento potranno garantire che i soldati svizzeri, una volta in missione sul terreno, non saranno coinvolti nei combattimenti. Contro questa revisione, con le organizzazioni pacifiste ed una parte della sinistra (a livello nazionale il Partito Socialista svizzero si è invece schierato a favore di entrambe queste modifiche), per ragioni diverse ha impugnato lo strumento del referendum anche l’Azione per una Svizzera Neutrale e Indipendente (Asni) raccogliendo, con il sostegno dei Democratici Svizzeri e dell’Unione Democratica di Centro, oltre 61.000 firme. In discussione in questo caso, né l’esercito né le spese militari, ma la minaccia per la neutralità e l’indipendenza di una Svizzera che rischia di ritrovarsi invischiata in conflitti armati all’estero, con oltretutto la prospettiva di un’adesione alla NATO. Ricordando che l’esercito resta il pilastro su cui poggia il sistema di sicurezza elvetico e che un’istruzione ottimale e moderna ne rafforza l’autonomia, il Consiglio federale lamenta che in una Svizzera fortemente edificata e densamente popolata molte esercitazioni, specie delle forze aeree e delle truppe corazzate, non possano più essere svolte. Per ovviare all’inconveniente, il Governo conclude già oggi accordi con altri paesi e sottoscrive convenzioni che consentono a soldati svizzeri e stranieri d’esercitarsi insieme, sia in patria sia all’estero. Questa modifica (Art. 48a), offre al Consiglio federale una base legale che semplifica le procedure, assicura una miglior protezione giuridica dei militari svizzeri impegnati in esercitazioni all’estero e, in base al principio di reciprocità, di quelli stranieri che per un periodo di formazione soggiornano temporaneamente in Svizzera (Art. 150a). Di fronte a quella che definisce la deriva dell’esercito svizzero da strumento di difesa ad esercito d’intervento Nato-compatibile in zone di conflitto all’estero ed infine ad esercito Nato, aggravata dalla prospettiva di vedere soldati stranieri esercitarsi in Svizzera, l’Asni ha lanciato il referendum anche contro questa seconda modifica in votazione. Queste modifiche servono dunque a dare base legale alla partecipazione ad operazioni di "imposizione della pace" ed all’interoperatività tra l’esercito svizzero e quelli di altri paesi dell’Alleanza atlantica. Per quanto si usino toni rassicuranti, minimizzando la portata di tali cambiamenti, la revisione anticipata e parziale della legge federale sull’esercito e sull’amministrazione militare rappresenta una vera e propria svolta. In gioco non vi è solo la modifica di due semplici articoli della legge militare, ma l’indirizzo della politica estera e di sicurezza della Confederazione. Servita quale antipasto per preparare il palato dell’opinione pubblica nell’attesa del piatto forte costituito dalla riforma Esercito XXI, la votazione del 10 giugno offrirà al Dipartimento della difesa una decisione di principio sul futuro ruolo di un esercito svizzero che dopo il crollo dell’Unione sovietica ha trovato solo negli interventi in caso di catastrofe ed in quelli umanitari la propria ragione d’essere. In questo senso, la partecipazione alla gestione militare dei conflitti nel mondo è anche, ma non solo, una carta da giocare per giustificare nuove spese. La richiesta di oltre 30 miliardi per rendere l’esercito Svizzero interoperativo e metterlo in condizione di assolvere i compiti autorizzati dalle modifiche in votazione è già sul tavolo, e c’è da scommettere che con due "sì" il 10 giugno sarà più facvile trovarli, mentre non si trovano le poche centinaia di milioni di franchi che servirebbero ad assicurare una vecchiaia dignitosa alle donne, alle vedove ed un pensionamento anticipato a coloro che svolgono lavori pesanti, malsani e mal pagati.

Pubblicato il

01.06.2001 01:00
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