Le altre vittime della pandemia

Studio Supsi dà la voce agli operatori sociosanitari nelle case anziani ticinesi: “Il Covid e la paura di morire anche noi, impotenza, orrore”

La narrazione della pandemia per essere completa non può fare a meno delle voci di chi si è ritrovato da un giorno all’altro, bardato da capo a piedi, a combattere contro un virus sconosciuto. Paura, preoccupazione, orrore, frustrazione, isolamento, solitudine, sofferenza e un carico enorme di lavoro. Un carico emotivo e fisico pesante amplificato da una mancanza di personale nel settore sociosanitario, che ha prodotto un cumulo di stress causato da turni lunghi, scarsa possibilità di recuperare le forze e la serenità. E poi quei morti portati via nei sacchi... Uno studio della Supsi dà la voce ai curanti nelle case anziani ticinesi.

 

«Oddio, li perdiamo tutti... Uno, due morti al giorno, paura che muoiano tutti... Paura di morire anche noi... Velocità, impotenza, senso di colpa».

Oddio, è terribile, che cosa succede? Le persone qui muoiono come mosche. No, non voglio più vedere, non posso neppure tenergli la mano, ho paura di contagiarmi, voglio andare a casa mia, non c’è più niente di umano in tutto ciò... Intanto alla televisione e alla radio danno il bollettino dei decessi e dei contagiati, io sono bardata da capo a piedi, ho la visiera, neppure gli occhi ho scoperti, ma ho paura per me, per la mia famiglia, per gli anziani che assisto da tempo e vedo ammalarsi e morire uno dopo l’altro. Oddio! 

«Non facevamo in tempo a vivere il lutto: tre decessi in un giorno, due il giorno dopo, non c’è stato il tempo di realizzare... anche cancellare il nome sul file, metterlo nei disattivati era pesante. Brutto anche entrare nella camera vuota per sanificare, portar via le cose personali: viene il magone... ti tocca. La velocità della cosa impressionante. I ricordi ci sono, si portano dietro... Senza dignità portati via in pigiama, in un sacco, in una cassa. Pelle d’oca, ma era la procedura».

Parlano a singhiozzi e le frasi appaiono frammentate, spezzate: dura non solo da vivere, ma anche da raccontare. In un sacco e tu puoi solo stare a guardare, perché bisognava agire così, cercando di proteggere i vivi. «Una persona che aveva preparato il vestito per quando sarebbe morta... e invece è stata portata via così. Loro si rendevano conto che stava succedendo qualcosa... Non ci riconoscevano più così bardati, se non dalla voce». Oddio!

La psicologa Rita Pezzati, docente alla Supsi, con le colleghe Claudia Sargenti e Luisa Lomazzi, ha raccolto dal 4 giugno 2020 al 21 marzo 2021 le testimonianze delle operatrici e degli operatori sanitari attivi in alcune case anziane ticinesi durante le due ondate di Covid. Dalle narrazioni sono emersi alcuni elementi salienti, che sono segnali di sofferenza, vissuti da chi era sul fronte: paura, preoccupazione, solitudine, sentirsi giù di morale, incompresi, anche irritati sono i segnali di sofferenza. Dal 16 marzo 2020 si sono ritrovati catapultati in una situazione di cui parlavano i media in ogni angolo del globo ma di fatto con poche informazioni, in una delle zone – il canton Ticino, Svizzera – più colpite per percentuale al mondo. Confrontati con una morte che non prendeva pausa, l’incertezza delle cure, i turni di lavoro protratti come se non ci fosse più il domani, sino alle incognite per sé, per la propria salute e per i propri cari. L’alta mortalità e il rischio di contagiarsi e contagiare sono altri elementi che emergono forti nella percezione di pericolo personale, dunque, molto influenti sul benessere e di conseguenza sull’operatività. I primi e urgenti obiettivi – ricordano le voci narranti di questa ricerca coordinata dal Centro competenze della Supsi – sono andati dall’organizzare la turnistica, all’aggiornamento e condivisione di conoscenze mirate, fino all’assimilazione, in tempi record, di vademecum operativi uniformi. «Un tempo tiranno, in costante accelerazione, che sembrava fuggire dal nostro controllo» una voce ricorda. Un giorno che correva e imponeva di concentrarsi su decisioni in continuo aggiustamento e in tempi rapidissimi: «È stato come vivere in una bolla, in un’altra dimensione come se quasi non avessi vissuto. Sul luogo di lavoro ho agito a volte come un automa, condizionata da precise direttive e con una particolare attenzione anche all’altro».

Quei mesi hanno avuto un’onda lunga come emerge dalle testimonianze dei curanti che hanno sostenuto l’urto e l’impatto della prima ondata di Covid-19: un urto che ha portato il sistema sanitario alla soglia del tracollo e gli operatori delle cure a pagare un prezzo alto a livello di sofferenza psico-fisica. Una sofferenza acuta e violenta, che si vuole aiutare a elaborare anche attraverso questo tipo di lavori accademici. È il riconoscimento che affrontare una malattia non è solo una questione di gestione sanitaria in senso stretto, ma anche di presa a carico dei vissuti di chi è stato in prima linea; vissuti che hanno incidenza sul benessere personale, ma anche sulla capacità di continuare a lavorare secondo alti standard di cura.  

Al carico di lavoro molto alto per mancanza di personale, si è aggiunto lo stress per non contagiarsi e non contagiare, che ha portato alcuni operatori a chiudersi per evitare un possibile contagio. «L’ho vissuto molto male, è stato angosciante perché ci ha tolto la socializzazione. Mi ha tolto un abbraccio dei miei figli».

Nella seconda parte dello studio emerge lo spirito collaborativo, di sostegno reciproco, e quasi “fervore”, che ha contraddistinto quei primi mesi: «È stato un periodo confusionario, ma più in allerta, tanta carica e adrenalina... voglia di aiutare».

Ora resta l’accumulo di fatica fisica ed emotiva, in un contesto che continua a prevedere misure restrittive: «Per il tipo di ospiti che abbiamo mi è mancato tantissimo il contatto fisico. Come fai? Devi frenare. Togliere la spontaneità, dire un no. Molti si sono adattati, tengono le mascherine...».

Per qualcuno è sempre più dura di altri.

Pubblicato il

05.11.2021 11:47
Raffaella Brignoni
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