Le Officine entrano nella Storia

Un avvenimento storico. Così è stata definita la mobilitazione nata, cresciuta e poi consolidatasi attorno agli operai delle Officine di Bellinzona dopo che i vertici Ffs avevano deciso di cedere la manutenzione dei carri e di spostare quella delle locomotive nelle Officine di Yverdon. Una notizia che non è proprio "andata giù" ai 400 lavoratori condannati in buona parte al licenziamento. Ma non è andata giù nemmeno ai ticinesi, né alla popolazione, né tanto meno ai politici. Oltralpe, la chiave di lettura utilizzata per spiegare i fatti di Bellinzona tende a far prevalere l'idea secondo la quale il ticinese non vuole accettare gli effetti della globalizzazione, preferendo chiudersi su sé stesso. E come sempre mal disposto a fare qualche chilometro in più per andare a lavorare quando in fondo ce ne sono di svizzero tedeschi che ogni giorno macinano chilometri per raggiungere il proprio luogo d'impiego. «Ma che male c'è a voler avere il proprio ufficio a due passi da casa, se le condizioni ci sono tutte affinché sia così?», si chiede Gabriele Rossi, storico dei movimenti operai che area ha incontrato per capire meglio le dimensioni e le ragioni di questo storico sciopero e il contesto in cui si inserisce.

Il movimento creatosi attorno alle Officine di Bellinzona, per noi ticinesi che lo abbiamo vissuto in diretta e da vicino è un evento già ora "storico". Ma, sia per le dimensioni che la durata, quanto accaduto alla Boillat di Reconvilier non è stato altrettanto "storico"?
In effetti non fu molto diverso. In entrambi i casi c'era una scelta strategica che andava a colpire un'azienda considerata vitale. Alla Boillat, di fronte al capitale privato, è stato meno facile sviluppare il discorso federalista e offrire così un atout importante per la salvaguardia degli interessi di una regione periferica. Da questo punto di vista le Officine hanno un vantaggio in più: vedono coinvolti due cantoni, di cui uno è a maggioranza tedesca; e questo ha certamente il suo peso.
Ma vi sono anche delle differenze: innanzitutto le Officine sono una ex regia federale. Secondariamente, ho la sensazione che alle Officine si sia stati molto più attenti a tutti i passaggi dello sciopero al punto da riuscire ad estendere maggiormente la partecipazione ai politici; a tutti i politici. Infine, contrariamente a Bellinzona, Reconvilier non è un polo regionale verso cui è facile far convogliare manifestanti, semplici cittadini. Qui sono arrivati a riunire tra le 8 e le 12 mila persone. Per andare oltre avrebbero dovuto mobilitare, veramente, anche il Sottoceneri. Ma per questo dovremmo ritrovare una tradizione di presenza in piazza, che abbiamo perso, ed è uno dei suoi demeriti maggiori, con la pace del lavoro.
Anche alla storica cartiera di Tenero ci furono licenziamenti. Ma non ci fu pari mobilitazione, nemmeno da parte sindacale. Non tutti gli operai sono uguali?
A Tenero ci fu una reazione maggiore nel momento in cui l'azienda fu comperata dalla cartiera di Cham, quando arrivò capitale da Zugo. Quando invece fu annunciata la chiusura non ci furono grandi risposte perché era praticamente escluso che si potesse fare diversamente. Per quel che riguarda Bellinzona, invece, contrariamente a quanto viene detto in questi giorni nella Svizzera interna non è affatto vero che il Ticino chiude gli occhi davanti alla globalizzazione: il Ticino vuole le "sue" Officine perché tutti i dati a disposizione mostrano che a Bellinzona si può restare. Forse per la cartiera si sarebbe potuto intervenire al momento dell'acquisizione da parte di Cham – un'acquisizione uguale a quella della Von Roll alla Monteforno – volta a mantenere la struttura per qualche anno per poi chiudere.
In merito a quanto accaduto a Bellinzona, nel resto della Svizzera si tende a descrivere il Ticino come il solito cantone un po' "calimero" che piuttosto che non sa andare oltre e vedere l'importanza dell'asse nord-sud per tutto il Paese al di là degli errori gravi commessi a livello politico-manageriale. Come mai?
Noi svizzeri siamo tutti abbastanza miopi: basta guardare i nostri quotidiani. Tutti si concentrano sui temi nazionali e sul locale. Questo, in un paese così sfaccettato come la Svizzera, crea un problema di comprensione importante; gran parte del paese resta nell'ombra. Di conseguenza non sono stupìto più di tanto di quest'analisi d'oltralpe. Inoltre, circola ancora quell'idea – che in parte noi ticinesi abbiamo contribuito ad alimentare – di un Ticino  "un po' bambino" che deve sempre essere guidato.  Un'idea che ritroviamo nelle Ffs: basti pensare che ci sono voluti 40 anni prima che in Ticino avessimo un dirigente delle ferrovie ticinese; prima erano sempre dirigenti d'Oltralpe venuti in Ticino per guidarci, per controllarci…
Oltralpe siamo anche accusati di essere fissati sulla linea del San Gottardo…
Il più buffo di questa situazione oggi "messa all'indice" è il fatto di essere stata creata proprio dagli svizzeri tedeschi. Storicamente, infatti, è stato il Canton Uri e poi i 12 cantoni che allora erano già parte della Confederazione ad essere scesi alla conquista delle terre ticinesi. E ad aver creduto e investito nella linea ferroviaria nord-sud fu Alfred Escher, uno zurighese… È vero che il Ticino ha sempre creduto, e continua a credere nei traffici; ma la scintilla non l'abbiamo accesa noi. Oggi è sorprendente sentir dire il contrario.
Moritz Leuenberger, nelle ultime settimane è passato da "questa ristrutturazione è inevitabile" a revocare la ristrutturazione. Il suo comportamento è "da manuale"?
Moritz Leuenberger è prima di tutto un filosofo, poi un politico. A volte è "meno furbo" dei suoi predecessori; personaggi come Otto Stich o Willi Ritschard prediligevano infatti una lettura rapidissima della situazione, il loro intervento era anche molto secco e diretto. A Leuenberger, invece, serve più tempo. Nel suo primo intervento sulle Officine ha detto una frase che spero non condivida, ma che gli è servita per far partire la riflessione. Accettando il discorso dell' "inevitabilità", la prima domanda che automaticamente ci si pone, e che Leuenberger deve essersi posto, è  questa: Se le ferrovie devono comportarsi esattamente come una azienda privata, perché non venderle? Leuenberger si è reso progressivamente conto che il suo ruolo doveva essere attivo e solo lui se lo poteva assumere, poiché la proprietà dell'azienda è pubblica. Su queste basi può anche prendere la responsabilità di un rifiuto delle proposte che vengono dagli operai di Bellinzona, ma deve essere una sua decisione in quanto rappresentante del  proprietario: il popolo svizzero.
Il Ticino è sempre visto come un cantone delle banche, dei colletti bianchi. Ma in realtà è un cantone anche molto operaio. Non se n'era accorto proprio nessuno?
Il Ticino ha sempre dimenticato il settore industriale, tanto che guardando la storiografia del cantone, i lavori sugli operai e sulle industrie sono rarissimi. I pochi centrati sui lavoratori, fanno sempre riferimento o a operai immigrati o a operai emigrati dal Ticino. Per lungo tempo è prevalsa l'immagine di un Ticino agricolo: il settore industriale era quello dell'immigrazione che, fino a quando gli stranieri di seconda generazione non si sono interessati alla vita dei propri genitori, non ha suscitato grande interesse. Gli stessi industriali ticinesi, fatta eccezione per il settore del granito, si sono adoperati poco per spiegare il ruolo dell'industria nel cantone: recuperare quella parte di storia è dunque difficile…. Fino a poche decine di anni fa prevaleva l'idea che in Ticino i salari sono bassi per ragioni strutturali,  per l'assenza di una grande forza contrattuale e soprattutto perché si era convinti che non esisteva una coscienza di classe: di conseguenza si cercava di strappare le condizioni minime nulla di più. In questo contesto, vedere quasi 500 operai delle Officine rimanere solidali durante un mese intero ha dunque certamente colto di sorpresa il grande pubblico del cantone.
Anche il sindacato è stato sorpreso?
Chi conosce l'azienda, le persone che vi lavorano e la tradizione dell'Officina no. Per la tradizione basti pensare che più della metà dei fondatori del Partito socialista nel 1899 erano giovanissimi operai delle Officine. In questi ultimi anni si è poi progressivamente creato un gruppo di operai che sanno fare i sindacalisti, che con i sindacalisti sanno trattare, sanno accordarsi e reggere un meccanismo che funziona molto bene. Un meccanismo molto difficile da creare….
Oggi c'è unità ma appena un anno fa, parlando delle Officine Gianni Frizzo aveva lasciato trasparire una certa rottura interna tra gli operai, una certa desolazione.  
Gli operai avevano un grosso problema soprattutto con il sindacato dei ferrovieri (Sev). Il Sev ha un'abitudine di "contrattazione" con la controparte data dalla situazione di regia federale: di fronte al sindacato non vi era solo il padrone interessato al suo profitto ma anche la Confederazione. Un aspetto che ha sempre favorito la contrattazione diretta al punto che il Sev poteva partecipare ai Consigli di amministrazione, diventando così parzialmente "padrone", ottenendo le informazioni in tempo reale. Oggi la presenza nel Cda diventa poco comprensibile. I dirigenti della sezione ticinese del sindacato lo hanno capito: e per questo si sono anche scontrati con la centrale nazionale. Il problema si era già posto con le Officine di Biasca, ma allora i meccanismi tradizionali avevano tutto sommato resistito e si erano cercate soluzioni esclusivamente politiche. A Bellinzona il problema  è invece stato realmente affrontato, perché oramai risultava chiaro che non vi erano più le premesse per fare altrimenti. Inoltre è intervenuto anche il sindacato Unia, per tradizione più combattivo e in grado di mettere a disposizione nuove forze in favore degli operai che si sono sentiti più protetti da questo binomio e dunque più uniti nell'affrontare scelte anche molto difficili.
Centinaia di operai uniti e combattivi. I partiti di sinistra non mi sembra si fossero accorti della loro presenza nel cantone. È ancora possibile recuperare il tempo perduto?
La sinistra manca di due cose: di una visione alternativa, a lungo termine, che non ha mai voluto costruire dopo la fine dei regimi dell'Est e di una sufficiente fiducia per poter imporre le proprie opinioni. L'ultima volta che la sinistra riuscì a mettere in piedi un periodo abbastanza lungo di egemonia culturale fu con il movimento degli anni Sessanta e Settanta. Un'egemonia poi andata persa e che oggi quasi non si crede di poter riconquistare. Gli operai delle Officine, invece, ce l'hanno fatta, sono riusciti a coinvolgere forze che sanno non essere oggettivamente dalla loro parte, forze che hanno fatto sempre una politica contraria ai loro interessi ma che in questo contesto sono state d'accordo con loro. Hanno raggiunto questo risultato in un modo estremamente abile, mantenendo il controllo della situazione, senza rinunce di metodo, né di obiettivi. Sono riusciti a far capire che questa è la sola strada che ci rimane. In un periodo improntato al pensiero unico, hanno saputo imporre una visione nuova, si sono visti dei grandi paladini delle privatizzazioni, dei convinti assertori della globalizzazione sostenere lo sciopero perché si sono anch'essi resi conto che, qui e adesso, era l'unica cosa da fare. Questo non vuol dire che abbiano cambiato opinione: insisto infatti sul "qui e adesso". Questa situazione di grande unità rischia di essere un unicum difficilmente ripetibile. Trasformarla in una strategia richiederà grande intelligenza. Per fare questo la sinistra ticinese deve tornare a servire il popolo, senza trasformarsi in populista. Se servirà solo i piccoli interessi non andrà lontano.
Gianni Frizzo oggi è molto sorpreso di essere fermato per strada e acclamato come leader di uno sciopero, azione che fino ad oggi ha sempre avuto una connotazione negativa. Siamo davanti ad una svolta?
I sindacati sono visti spesso come i perturbatori dell'ordine, come coloro che non accettano una realtà che, inevitabilmente, va in una direzione diversa dai loro fini. In realtà l'azione sindacale negli ultimi duecento anni ha profondamente mutato, in meglio, sia la condizione operaia che la società tutta. Oggi viviamo un momento in cui lo Stato nazionale è in profonda crisi e non riesce più ad imporre le proprie visioni ad un'economia mondiale molto più potente; sono ridimensionati dei grandi bastioni statali come l'esercito, le imposte, le assicurazioni sociali. A livello locale, attorno a interessi economici, si riesce invece a far convergere anche quelli politici, religiosi, sociali, a volte persino etnici… e questo crea una forza, probabilmente l'unica, se diffusa, in grado di opporsi allo strapotere dell'economia internazionale. Il movimento sindacale sa essere alla testa di questa forza; a Bellinzona tutto questo lo abbiamo visto in modo piuttosto evidente.

Pubblicato il

18.04.2008 01:00
Fabia Bottani
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