Lavoro, un problema etimologico che diventa attitudinale

La forma più antica, documentata o ricostruita, cui si possa risalire percorrendo a ritroso la storia di una parola è l’etimo. L’etimologia della parola lavoro è da ricondursi al latino labor che significa fatica. Ecco che il lavoro, se letto sotto questa chiave, non può che rappresentare un’attività volta a sfiancare, uno sforzo per il quale si sente il peso e la stanchezza.

 

Non è presente, nell’etimologia latina, alcun riferimento alla gioia o al piacere come effetto del lavoro stesso. Poiché i pensieri e le parole condizionano in maniera determinante i comportamenti e gli stati d’animo umani, integrare una cultura del lavoro che si basi esclusivamente sul senso della fatica rischia di determinare condizioni professionali non di certo entusiasmanti, generando una visione del lavoro incapace di prevedere alcuna forma di soddisfazione umana. Questo accade perché l’uomo è più naturalmente orientato alla creazione di lavoro che non alla ricerca di un impiego. Nel primo caso si entusiasma, nel secondo, tendenzialmente, si angoscia.


Ma se andiamo ancora più indietro nella ricerca delle origini del termine lavoro, arriviamo alla radice sanscrita labh (a sua volta dalla più antica radice rabh) che, in senso letterale, significa afferrare, mentre, in senso figurato, vuol dire orientare la volontà, il desiderio, l’intento, oppure intraprendere, ottenere.


Solo se aderiamo a questa etimologia, troviamo gli elementi che contribuiscono a fare sì che il lavoro, oltre ad avere una connotazione di puro carattere economico-meccanicistico, sia il luogo dove l’essere umano afferra il desiderio, orienta la volontà, intraprende e ottiene per sé stesso, per il suo bisogno di autodeterminazione e per il suo benessere.


Primo Levi, nel suo libro “La chiave a stella”, descrive inesorabilmente gli effetti di una tale limitazione etimologica: «Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono. È malinconicamente vero che molti lavori non sono amabili, ma è nocivo scendere in campo carichi di odio preconcetto: chi lo fa, si condanna per la vita a odiare non solo il lavoro, ma sé stesso e il mondo. Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena, ma l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge».


Da quanto finora espresso, risulta inequivocabilmente necessario attivarsi verso la ricerca di un lavoro che sia in grado di soddisfare il nostro bisogno di crescita e autodeterminazione. Perché questo avvenga è altresì necessario esplorare e comprendere quali sono le nostre più intime inclinazioni, i nostri bisogni e i nostri desideri. Soprattutto per i giovani, al fine di evitare scelte che risultino inadeguate al loro profilo, distinguere e scegliere in tal senso diventa di fondamentale importanza per il futuro. Ripiegare su professioni distanti dalle proprie inclinazioni e competenze, solo perché il mercato del lavoro non è in grado di generare spazi e occasioni per accogliere, valorizzare e far crescere talenti e potenziali, rischia di essere, sul lungo periodo, un boomerang dagli effetti distruttivi per l’economia locale.


L’attività di counseling e coaching gratuiti proposta da Sos Ticino nell’ambito del progetto Coaching TransFair 2 (CT2), risponde a queste esigenze sia sensibilizzando il tessuto economico rispetto ai profili dei partecipanti, sia accompagnando i giovani tra i 18 e i 30 anni verso un lavoro, o un percorso formativo, in grado di restituire fiducia e motivazione.


Uno degli elementi su cui si fonda e distingue il percorso dai molti presenti sul territorio, è rappresentato dal presupposto che non esiste un buon curriculum vitae e non esiste una buona lettera di motivazione se non si ama la propria storia, la propria vita. È quindi necessario innamorarsi della propria storia e contagiare il nostro interlocutore con la stessa.
Grazie ai loro racconti, i giovani hanno la possibilità di riconoscersi come portatori non solo di competenze, ma di creatività, entusiasmo, abilità e talenti.

Pubblicato il

23.09.2021 11:36
Guido Mele
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