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Lavoro nero e omici bianchi
di
Loris Campetti
170 infortuni mortali dall’inizio dell’anno, 170 vite spezzate dal lavoro nei cantieri edili in Italia. Questo avviene in un paese dell’Unione europea dove ogni giorno perdono la vita fra i 3 e i 4 lavoratori, oltre mille ogni anno. Per la precisione, 1’116 vittime accertate nel 2003. Si muore in fonderia e nei cantieri navali, nelle ditte appaltatrici come nelle grandi aziende, nelle multinazionali come nelle ditte fantasma. Si muore lavorando “in regola” oppure da invisibili, al nero. Il tuo padrone può essere il presidente di Confindustria, della Fiat e della Ferrari, Luca Cordero di Montezemolo. Oppure può essere un mafioso che gestisce la tua vita e la tua morte utilizzando i caporali, odiosa figura di intermediazione della forza lavoro tipica del secolo scorso ma che oggi ha riconquistato una sua moderna centralità grazie alla totale deregulation garantita dalla legge 30, detta legge Biagi.*
La legge Biagi flessibilizza il lavoro fino a farlo diventare così precario da fare invidia a tutti i governi e ai padroni dell’Unione europea e prevede più di 50 forme contrattuali diverse, messe gentilmente a disposizione da Berlusconi agli imprenditori. Chi lavora sa che più aumenta la precarietà (per legge, nel caso italiano), più diminuisce la sicurezza, tanto rispetto al futuro lavorativo, alla pensione, ai diritti, quanto alle aspettative di vita. Le norme di sicurezza sul lavoro diventano sempre più aleatorie, i ponteggi più oscillanti, le protezioni nelle prestazioni “aeree” e i caschi sempre più optional. Le statistiche ci dicono che gli infortuni sul lavoro si verificano per il 68 per cento nel Settentrione, solo il 19 per cento al Meridione e il 13 per cento nel Centritalia. Il mistero è presto svelato: la maggioranza dei lavoratori dipendenti nelle fabbriche, negli uffici e nei cantieri del Nord opera con un regolare contratto di lavoro in tasca (regolare sempre nel senso di quelle regole capestro di cui sopra), condizioni che raramente si verificano al Sud, dove il lavoro al nero è la regola e il contratto l’eccezione. Di conseguenza, gli infortuni denunciati sotto la linea del Tevere sono solo una parte di quelli realmente avvenuti. Ciò è vero soprattutto nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura dove è più massiccio l’utilizzo di manodopera immigrata. Addirittura, può succedere che i corpi senza vita dei muratori sfracellatisi al suolo scompaiano, o vengano abbandonati al margine di una strada o davanti a un ospedale. Il caso del povero Francesco Iacomino, 33 anni, sposato con una ragazza di vent’anni e con un figlio di un anno, è emblematico. Dopo avere inutilmente cercato lavoro come saldatore a Nord, a Torino, è tornato in Campania e alla fine è riuscito a trovare un lavoro al nero nell’edilizia. Al nero, certo, ma 350 euro la settimana erano l’unico modo possibile per mantenere la famiglia. È morto in cantiere – un cantiere fantasma per la demolizione di alcune strutture in ferro – cadendo da un’impalcatura mentre con la fiamma ossidrica stava dissaldando travi in ferro che poi il padrone avrebbe provveduto a far caricare da altri lavoratori irregolari su un furgone per la vendita. Non aveva protezioni, cosicché quando ha perso l’equilibrio è precipitato al suolo. Dalle ricostruzioni dei magistrati inquirenti si capisce che a quel punto, viste le condizioni disperate del poveraccio, due persone che lavoravano nel cantiere (e reggevano l’impalcatura mobile dalla quale Francesco è precipitato) l’hanno caricato in macchina e l’hanno portato in ospedale, sostenendo di averlo trovato abbandonato e agonizzante in una strada di Ercolano per sviare le indagini e salvare il padrone e se stessi dall’accusa di omicidio. Francesco è morto durante il ricovero. Intanto, un terzo dipendente della ditta fantasma aveva provveduto a smontare i ponteggi e a far sparire ogni traccia, compreso il furgone del padrone e il motorino con cui ogni giorno da dieci giorni Francesco si recava al lavoro. Poche settimane fa, un caso analogo a quello di Francesco si era verificato nella civilissima Assisi. Stesso copione, eccetto il finale meno tragico: il lavoratore infortunato, scaricato come un sacco di cemento, è sopravvissuto. Al Nord capita invece che gli omicidi bianchi vengano spacciati per incidenti stradali in motocicletta, o addirittura per suicidi per amore, nel caso di un cadavere ritrovato sulle acque del Po. Purtroppo avviene che la differenza tra Nord e Sud in relazione alla regolarità dei contratti si vada viepiù attenuando. Le stime fatte dai sindacati edili ci dicono che il nero e il lavoro irregolare viaggiano intorno al 40 per cento, tanto a Milano quanto a Palermo. È di poco tempo fa l’arresto – in seguito alla denuncia di un lavoratore immigrato – di un caporale, mazzetta in mano, nel più grande cantiere d’Europa, quello del Polo esterno della Fiera di Milano. A seguito di questa scoperta (dell’acqua calda), il prefetto di Milano ha ottenuto che imprese, sindacati ed enti di controllo firmassero un impegno a denunciare le illegalità “qualora ne vengano a conoscenza”. Decisamente pochino, in un quadro dominato dalla giungla dei subappalti e dalla disperazione di chi, italiano o straniero, è disposto per disperazione a subire sfruttamento, pericoli e illegalità. In un paese d’Europa in cui il 16 per cento del Pil è prodotto al nero. Nel 2002, su oltre 20 milioni di occupati, ben 3,437 milioni sono risultati in varie forme “irregolari”. Un dato in lieve miglioramento, grazie alle nuove leggi sulla flessibilità (quelle che legalizzano il precariato e la perdita di sicurezze). I numeri e le analisi sono dell’Istat, la chiosa tra parentesi, invece, è del sottoscritto.
I nuovi schiavi dell’economia globalizzata
A mungere le mucche nei grandi allevamenti della Bassa Padana sono i lavoratori indiani. Sono i cugini di quelli che puoi incontrare, mescolati ai sik e agli immigrati da Bangladesh, nelle campagne dell’Agro Pontino, a sud di Roma, indaffarati nella mungitura delle bufale. Sono soprattutto africani, invece, i raccoglitori di pomodori nella campagna napoletana, mentre il lavoro nei campi nelle colline marchigiane e nella piana del Salento pugliese è sempre più spesso garantito dagli albanesi e dai macedoni. A Mazara del Vallo, in Sicilia, i pescatori sono in maggioranza tunisini così come nel porto di Ancona, dove a smagliare le reti puoi incontrare anche marocchini e palestinesi. Nel Bresciano e nel Bergamasco sono sempre più numerosi gli immigrati maghrebini e centroafricani ma anche provenienti dall’Est europeo, nei lavori più pesanti del settore metalmeccanico, a partire dalle fonderie. Gli altri settori che vedono una crescente occupazione di mano d’opera immigrata sono il tessile, la parte meno nobile della filiera del turismo e dell’industria alberghiera, la chimica, il settore delle cave (in Veneto e in Piemonte). Stiamo parlando, dunque, di lavori particolarmente usuranti e precari che pochi italiani, anche se disoccupati, sono disposti a fare, se non per brevi periodi di tempo. Non si possono non citare a questo proposito i migranti impegnati in gran quantità nel catering per la grande industria: provengono dall’Asia, dall’America latina, dal Nordafrica. Tra i marittimi, grazie a una legge dissennata firmata purtroppo dal governo dell’Ulivo, è stata regalata agli armatori la possibilità di assumere personale viaggiante con il contratto dei paesi d’origine. Ciò spiega il boom di mozzi e cucinieri egiziani o, in minor misura, provenienti dai paesi nati dall’implosione della Jugoslavia. Assumere organico con le forme contrattuali previste in Egitto, in Marocco o in Slovenia, vuol dire per l’imprenditore risparmiare un sacco di soldi, avere lavoratori iperflessibili obbligati a orari pesantissimi in cambio di un salario più basso e minori protezioni sanitarie e pensionistiche di quelle garantite ai loro compagni italiani. Questo è uno dei pochi casi in cui in Italia si è verificata una situazione di dumping sociale. Da sempre i porti, e non solo in Italia, sono luoghi speciali per il mercato legale e illegale della forza lavoro. Nei cantieri navali, là dove è più radicato il sindacato, si è riusciti a garantire un sia pur fragile controllo di una filiera frantumata in una miriade di appalti e subappalti nei settori più pesanti, a partire dalla costruzione e dalla verniciatura delle stive delle navi. A Venezia e a Monfalcone la capocommessa Fincantieri è obbligata a trattare i lavoratori, qualunque sia il loro passaporto, alla stessa maniera, cioè secondo quanto previsto dai contratti collettivi italiani. Ma è nei subappalti che, grazie al meccanismo del massimo sconto nelle gare, squadre di disperati africani entrano in competizione con squadre di disperati croati o ucraini: elettricisti, muratori, meccanici, verniciatori, saldatori. Nell’industria, nell’agricoltura e nella cura delle persone la domanda di lavoratori stranieri è decisamente più alta dell’offerta. È la conseguenza di una legge razzista e insensata chiamata Bossi-Fini. Una legge restrittiva che vede in ogni straniero un nemico, un pericolo, un potenziale criminale o addirittura un possibile terrorista. Arrivare in Italia per lavorare è diventata un’impresa quasi impossibile: quote bassissime, burocrazia farraginosa, lungaggini, arbitrii delle forze dell’ordine. Il risultato, naturalmente, è che i migranti in un modo o nell’altro in Italia arrivano, ma clandestinamente e clandestini restano nelle maglie del lavoro illegale, grigio e nero, con il rischio di essere individuati, incarcerati nei famigerati cpt (centri di permanenza temporanea) e infine espulsi. Un bilancio fallimentare, e criminale. Un bilancio che riguarda il governo Berlusconi, a cui però le porte sono state aperte dalle leggi del centrosinistra. Ed è al centrosinistra che si devono i cpt, i centri di permanenza temporanea. Anche nel settore dell’edilizia ha un peso importante l’occupazione dei lavoratori stranieri in Italia. Nei piccoli cantieri come in quelli giganteschi delle grandi opere, dalla Sicilia al Piemonte. Arrivano soprattutto dai paesi dell’ex Unione Sovietica, Ucraina e Moldovia in testa, e dai Balcani: rumeni, bulgari, albanesi, serbi, croati, sloveni, macedoni. Ed è nell’edilizia che si sentono con più forza le conseguenze della precarizzazione del lavoro per via legislativa, che va a sommarsi a una tradizione di illegalità, quando non addirittura di criminalità vera e propria. Non solo in Sicilia, in Calabria, in Puglia e in Campania. Sempre più appalti e subappalti per le grandi opere nel Nord e nel Centro Italia finiscono nelle mani della mafia, della ‘ndrangheta, della sacra corona unita, della camorra. E in questi casi, il conflitto, la competizione al ribasso di diritti tra povericristi italiani e povericristi immigrati può farsi sentire, si fa sentire. Una lotta per la legalizzazione là dove legge non c’è e per la modifica delle leggi forcaiole che regolano il mercato del lavoro: è l’unica strada per evitare e prevenire guerre tra poveri; in un paese in cui, proporzionalmente alla popolazione indigena, gli immigrati sono la metà che in Francia e comunque decisamente meno che in Germania e nella maggior parte dei paesi europei. Del resto l’Italia, paese in declino economico e meno attraente di dieci anni fa, per i migranti è sempre più spesso un paese di transito verso il Nord Europa.
Pubblicato il
15.10.04
Edizione cartacea
Anno VII numero 42
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