Lavoratore, flessibile e precario

«La struttura del mercato del lavoro in Svizzera e in Ticino cambia e sta cambiando anche in fretta». È quello che emerge da una ricerca ad hoc, commissionata dal Dipartimento della sanità e socialità, e presentata oggi presso la sala polivalente dell’Università della Svizzera italiana. Una primizia a livello svizzero. Il tema è «Forme di lavoro e qualità della vita in Ticino». Gli autori sono Christian Marazzi, economista e docente presso il Dipartimento di lavoro sociale della Supsi (Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana) e Angelica Lepori, ricercatrice presso lo stesso dipartimento. Il dato che emerge da una prima lettura dello studio è che negli ultimi dieci anni il mercato del lavoro svizzero e, di convesso, quello ticinese, sono stati attraversati da cambiamenti epocali. Tali cambiamenti possono esser così riassunti: Nonostante il numero degli occupati sia rimasto in questi anni generalmente stabile, è mutata la composizione di questa popolazione. Sono aumentati i lavoratori che sono occupati a tempo parziale e sono diminuiti gli occupati a tempo pieno. Addirittura il 30,7 per cento delle persone occupate oggi in Svizzera, lavorano a tempo parziale. E di quest’ultimi la stragrande maggioranza sono donne. «In Ticino – cita lo studio Supsi – i lavoratori a tempo parziale rappresentano il 20 per cento degli occupati e il loro numero è in costante aumento negli ultimi 10 anni». I contratti a tempo indeterminato rimangono la forma prevalente d’impiego, anche se i contratti con durata a tempo determinato sono in aumento. È inoltre in aumento il numero di persone con impieghi atipici (+24 per cento negli ultimi 6 anni). Gli atipici La principale forma di lavoro precario che ha assunto particolare rilevanza è quello interinale. Solo nel 2000, le persone collocate in Svizzera attraverso agenzie di lavoro interinale erano più di 200 mila e il loro numero è destinato ad aumentare. Il Ticino non è immune da questa tendenza. Gli occupati con questa particolare forma di collocamento erano, nel 2000, più di 4 mila con un aumento record dell’89 per cento rispetto al 1995. Un’altra figura di lavoratori atipici è quella legata ai neo-indipendenti. Il loro numero è in continuo aumento sia in Svizzera, sia in Ticino e oggi rappresentano il 18 per cento degli occupati. All’interno di questa categoria si trovano figure professionali diverse: dall’imprenditore, al libero professionista, fino al lavoratore autonomo o lavoratore solo. Edilizia, industria, commercio e informatica sono i settori dove prevalgono i lavoratori soli, cioè senza dipendenti. «A questa categoria – cita lo studio – è necessario dedicare una particolare attenzione in quanto mostra una situazione professionale meno soddisfacente anche dal punto di vista finanziario». Il rischio è quello di cadere nella categoria dei working poor, i cosiddetti lavoratori poveri. Persone che pur esercitando un’attività produttiva non raggiungono il minimo vitale. «In Svizzera tali lavoratori sono circa 250 mila e l’emergere della “nuova povertà” è legato ai processi di riorganizzazione del del mercato del lavoro» continua lo studio Supsi. Aumenta lo stress Un aspetto non secondario di questi cambiamenti è l’aumento dello stress e dell’insicurezza che sono causa di malanni. Infatti, tra i lavoratori indipendenti è notevole il grado di stress, nervosismo e stanchezza. Alcuni aspirano addirittura a tornare al lavoro dipendente in quanto questo sembra garantire maggiori certezze soprattutto da un punto di vista finanziario e delle assicurazioni sociali. L’aspetto che emerge chiaramente, e che la ricerca evidenzia, è che «il lavoro flessibile assume forme diverse e diventa difficile distinguere in modo chiaro vantaggi e svantaggi di queste forme di impiego. Si può considerare in linea generale che i rischi riguardano soprattutto le forme contrattuali, mentre quelli positivi si riferiscono al contenuto del lavoro». Nonostante queste distinzioni è possibile elencare problematiche e individuare possibili soluzioni. Innanzitutto, è chiaro, il lavoro precario genera difficoltà a programmare la vita professionale e quindi anche quella privata e qualsiasi progetto viene rimandato. «La soluzione – suggerisce lo studio – potrebbe essere cercata nell’istituzione di agenzie per il “mutuo impiego” capaci di sostenere il lavoratore nel passaggio da una professione all’altra e garantire una certa stabilità ai cosiddetti lavoratori “nomadi”. Un altro aspetto è quello della formazione e della difficoltà ad acquisire professionalità da trasferire da un datore di lavoro all’altro. «In genere i lavori flessibili rendono difficile la costruzione di una carriera professionale, lasciando gli individui in una costante sensazione di precarietà». Intervista Christian Marazzi Del tema dell’aumento del lavoro flessibile e sui suoi effetti sia positivi, sia negativi ne abbiamo abbiamo parlato con Christian Marazzi, coautore dello studio e docente presso la Supsi. Professor Marazzi, quali sono state le motivazioni principali per l’esecuzione di questo studio? Per il nostro paese gli anni ’90 sono stati anni di notevoli trasformazioni per il mondo del lavoro. In particolare, oltre ad aver conosciuto tassi di disoccupazione storicamente inediti, sono mutati i modi di lavorare. Da un mercato del lavoro prevalentemente costituito da lavoratori dipendenti, si è passati ad uno dove la quota di lavoratori "atipici" (interinali, indipendenti, ecc…) è aumentata. Si è quindi posta l’esigenza di ricostruire un quadro statistico-descrittivo dei processi in atto. In poche parole si è fatta più pressante l’esigenza di sapere in che direzione va il mondo del lavoro anche per studiare gli effetti sul piano della salute e della qualità di vita che questi cambiamenti stanno creando. Infatti, questo studio rientra in quella che è la definizione dell’indirizzo della nuova politica sociale del dipartimento della sanità e socialità Da questo studio emergono anche aspetti positivi del lavoro interinale e del lavoro in proprio. Si deve dedurre che i lavoratori indipendenti aumenteranno ancora? Precisiamo prima di tutto che la crescita del lavoro neo-indipendente – io lo definisco post-salariato –, non è solo quello legato alle professioni liberali. Oggi abbiamo a che fare con ex lavoratori dipendenti che a causa delle crisi economiche passate e a periodi di disoccupazione, o ai cambiamenti nell’organizzazione aziendale (outsourcing), si ritrovano ad essere imprenditori loro malgrado. Per certi versi è stata una scelta forzata e non necessariamente ragionata. È un processo ambivalente dove ci sono aspetti negativi, come l’aumento del carico di lavoro, la sensazione di precarietà ecc… e aspetti positivi di cui bisogna tenere conto. C’è una mentalità che serpeggia in quest’universo del lavoro indipendente come la rivendicazione d’autonomia, di libera scelta, d’auto-organizzazione del lavoro che va valorizzata. Non dal punto di vista puramente ideologico, ma sociale. Bisogna, quindi, costruire un quadro di riferimento complessivo, assicurativo che permetta ai lavoratori indipendenti di non sentirsi in un vuoto di rappresentanza. A proposito di rappresentanza, quale potrebbe essere per il sindacato il modo per coinvolgere questi lavoratori che sfuggono ai contratti collettivi e che rischiano di non avere nessuna forma di tutela? C’è un blocco culturale storicamente determinato nel mondo sindacale dovuto alla storia stessa del sindacato che è nato nel mondo salariato. La prima cosa è rendersi conto che i lavoratori indipendenti sono una componente essenziale del mercato del lavoro. Non bisogna quindi considerarli nemici ma fanno parte dell’universo del mondo del lavoro tout court. La rappresentanza non deve riguardare solo i lavoratori dipendenti ma anche queste forme di lavoro eterodiretto (interinali e indipendenti). Rendersi conto di questo è un primo passo. Inoltre i sindacati grazie alla loro struttura e alle competenze maturate hanno la possibilità di offrire una serie di servizi (consulenza giuridica, assicurativa) a questi ex-salariati. Bisogna anche uscire dallo schema mentale tipo: indipendenti = categorie professionali. Anzi, proprio nel caso degli indipendenti bisogna pensare a qualcosa che trascenda la categoria professionale e pensare a qualcosa che si occupi della valorizzazione di una nuova professionalità che è insita nel nomadismo lavorativo, nella mobilità. Questi continui cambiamenti di posto di lavoro e di esperienze professionale possono anche giovare alla formazione? Da una parte sono una formazione in sé e dall’altra non giovano direttamente al lavoratore-nomade perché tale formazione non gli è riconosciuta. Viene richiesta una versatilità che presuppone il bagaglio di esperienze accumulate. Si continua a ragionare ancora in termini di prestazione puntuale e non di “facoltà” lavorativa.

Pubblicato il

18.10.2002 04:30
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