“Lassait in Svisera las piastrelas…”

«Lassait in Svisera las piastrelas ch’i las savin fâ encja nô». / «Lasciate in Svizzera le piastrelle che le sappiamo fare anche noi». Sembrerà banale, ma questa frase, che ho sentito addirittura alla fine degli anni ’60, mi ha fatto capire di più sull’emigrazione di tutto quello che fin lì avevo letto e vissuto. La pronunciò forte, perché tutti lo sentissero, un mio cugino, Amadio Tenentini, che aveva fatto il partigiano garibaldino, ma, con pochi altri, aveva preso per buono il proclama di Alexander: fino a nuovo ordine nascondete le armi e tornare a casa. Questa la sostanza. Ma a casa dove? Forse non c’era un accordo tra antagonisti belligeranti, ma se la cavò. Poi le armi le riprese, ma quell’intervallo bastò, contrariamente agli altri, che di tornare a casa non ci pensarono nemmeno e che poi trovarono tutte le porte sbattute in faccia e dovettero emigrare, perché fosse “premiato” e gli venisse dato un posto di bigliettaio sulle corriere che facevano servizio pubblico tra le Valli della Carnia e Udine. Le corriere, allora, non avevano, come già da diversi anni hanno, una portabagagli incorporato in basso sulle fiancate, facilmente accessibile anche dai singoli viaggiatori. Allora tutti i bagagli voluminosi dovevano venir sistemati sul tetto, dove si accedeva mediante una scaletta di ferro, fissa la parte superiore, snodabile la parte inferiore che si ribaltava e avvitava sulla prima. Chi doveva caricarsi tutti i bagagli sulle spalle e sistemarli sul tetto era il bigliettaio. Alla fine di luglio e a partire dal mese di novembre, gli emigrati tornavano ogni giorno a corriere piene. Tutti avevano delle grandi valigie gonfie e pesantissime: vestiario da sistemare, regali, attrezzi nuovi e usati da muratore, da falegname, scalpellino, forse anche piastrelle. A mio cugino toccava dunque risolvere il problema del dislivello. Cioè caricarsi in spalla, quei tremendi pesi, tenerli verticali con una mano e, con l’altra, arrampicarsi sulla scaletta fin sul davanti del tetto della corriera. Per fortuna, la parte davanti del tetto, si riempiva abbastanza in fretta, quindi i percorsi diventavano più brevi. Le valigie lì venivano legate con lunghe cinghie di juta e agganciate alle sponde ai lati. Andava aggiunta la complicazione delle destinazioni, quindi occorreva sistemarle raggruppate per fermata, in modo da non perdere troppo tempo a cercarle, slegarle e scaricarle. Insomma un lavoro non da poco, già normalmente, e quando tornavano gli emigranti molto più faticoso. Aveva quindi ragioni da vendere, mio cugino, ad attribuire agli emigrati traffici internazionali pesantissimi e per di più inutili. Comunque alla frase (sentita una volta, tornando per le ferie da Zurigo), che chissà quante volte aveva già pronunciato, lì quasi gridata ma con tono scherzoso, rispose una gran risata degli emigrati che si accalcavano ancora attorno alla scaletta. Notai, però, che, anche se la frase era davvero geniale, la risata non era proprio liberatoria, semmai perplessa, condivideva e non condivideva. Anche se Madio era famoso e amato, perché era stato partigiano e perché, assieme agli altri partigiani, alla fine di maggio, questa volta disarmati per davvero, costituirono la prima squadra di pallone postbellica di Comeglians. Con Attilio Lepre, un altro cugino, morto recentemente, Madio era uno dei più micidiali cannonieri, tanto che era stata dedicata loro un inno, sull’aria di una canzone partigiana, che poi come tutte, a sua volta era il calco di un’antica canzone popolare. Quella frase mi è tornata in mente proprio all’annuncio della morte di Tilio. Ma ci avevo pensato spesso per tutti i messaggi che contiene Intanto: “noi” e “voi”: noi che siamo rimasti qui vi diciamo che: a voi che siete via! Insomma: trattati da quasi estranei, quasi da stranieri, non più parte della comunità, comunque non a parte intera. Voi dovreste sapere che le fabbriche e i laboratori sono stati riaperti, che la vita sta tornando normale, che “noi” non solo siamo di nuovo in grado e capaci di far piastrelle, ma che certamente le facciamo più belle (e meno pesanti…) di quelle degli svizzeri, e facciamo anche tutto il resto. Quindi non veniteci a insegnare e a predicare: puntualità, qualità, ordine, ecc. Luogo comune così diffuso e condiviso che veniva e viene ancora attribuito ad una sorta di fastidiosa patologia: “la svizzerite”… La frase forse non arrivava oltre a significare: «lasciate le piastrelle in Svizzera», ma non è estraneo il pensiero: «rimaneteci anche voi». D’altronde era il tempo in cui ai compagni si diceva: se non ti piace qui: vai in Russia. E per analogia… Frittata fatta. Ma poi, purtroppo, nella realtà, i “noi” diventeranno, in tanti, dei “voi”, l’emigrazione continua fin oltre tutti gli anni ’70 e cessa solo quando non c’è più nessuno o quasi in grado di emigrare: chiudono le latterie, le scuole, falliscono anche le fabbrichette di piastrelle, almeno lì, tanto che a fare i conti oggi si trovano molti paesi quasi vuoti e la popolazione rimasta non arriva neppure a metà di quella di quegli anni. Frasi di quella forza si sono susseguite, via via, negli anni. Ad ogni ritorno, incontrando i compagni rimasti, provavo a dire: si potrebbe fare così e così (e per la verità alcune cose son poi successe davvero, di più altrove…). La replica era, penso a Elio: «Tu dici, dici, ma domani vai via e ci lasci qui.» Ma giorni fa, un personaggio illustre: l’oste del mio paese, parlando dell’Albergo diffuso, che abbiamo realizzato lì, ristrutturando le case degli emigrati e di un compaesano emigrato, che ogni anno ritorna, ma che si era rifiutato che si intervenisse sulla sua casa, ebbe un giudizio fulminante: «Di solito chi va fuori impara cose nuove, porta idee nuove, ma lui ha dimenticato anche quello che aveva imparato qui.» Pace fatta.

Pubblicato il

11.07.2003 04:00
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