Li vediamo sfrecciare nelle grandi città d’Europa, ma sempre più anche in Ticino. Con ogni tempo e ad ogni ora, fanno la spola in bicicletta fra i ristoranti e le case private guidati da una piattaforma impersonificata che detta ritmi e tempi. Sono i rider e le rider, ciclofattorini dominati dall’algoritmo e, di fatto, ultima frontiera della classe operaia. Chi sono? Come vivono questa particolare condizione di lavoro? Quale è l’impatto della piattaforma sulle loro vite? In proiezione domenica 29 ottobre alle 14.00 al Cinema Corso di Lugano – nell’ambito del Film Festival dei diritti umani – il documentario Life is a Game cerca di rispondere a queste domande. Prodotto da IRPI Media, il film è codiretto dalla giornalista Laura Carrer e dal fotografo Luca Quagliato. Li abbiamo intervistati.
Laura Carrer e Luca Quagliato, come è nata l’idea di dare voce a questa categoria di lavoratrici e lavoratori marginali? LC: Da giornalista mi occupo da tempo dell’impatto della tecnologia sulla società. Ho così lavorato sul mondo delle piattaforme e del loro funzionamento, soprattutto per quanto riguarda la città in cui vivo: Milano. Negli ultimi anni è esploso questo nuovo modello organizzativo, fortemente basato sull’utilizzo delle nuove tecnologie digitali. Tutti noi vediamo i rider e le rider nelle nostre città, ma di loro non sappiamo molto salvo qualche immagine distorta veicolata dalla stampa o dalle stesse piattaforme che vantano l’indipendenza favorita da queste nuove forme lavorative. Mi sembrava perciò importante cercare di raccontare il mondo dei rider dal loro punto di vista, per capire quale fosse l’impatto della gig economy sulla loro vita quotidiana.
LQ: Il tema mi tocca direttamente. Ho lavorato come ciclofattorino nel 2015, per necessità finanziaria. Poi l’ho rifatto cinque anni dopo, nel 2020, durante la pandemia. Dopo aver conosciuto Laura, abbiamo cominciato a pensare che sarebbe stato importante poter dare un volto a questi miei ex colleghi che attraversano le nostre città trasportando cibo. L’idea di base è quella di dare loro voce per permettere a queste persone di raccontare questo mondo dal loro punto di vista. Lo abbiamo fatto in diverse città d’Europa, in modo da dare una dimensione europea a questo fenomeno.
Ci sono dei cambiamenti rispetto alla sua esperienza personale nel 2015 e quella del 2020? LQ: Senza dubbio. In questo lasso di tempo relativamente breve ci sono stati dei cambiamenti enormi. Nel 2015, tutto il sistema che regolamentava il lavoro dei rider era abbastanza semplice, quasi artigianale, con delle persone che svolgevano un classico lavoro d’ufficio e con le quali ti potevi interfacciare. Nel 2020, tutto è invece diventato impersonificato: nessun rapporto personale diretto, tutto automatizzato, guidato dall’algoritmo e dalla piattaforma. Persino il materiale da lavoro ti viene inviato per posta, per cui non hai mai a che fare con una persona fisica in carne ed ossa. Questa sensazione di isolamento contribuisce senz’altro a forgiare in chi lavora l’idea che sia un lavoratore autonomo. In realtà, non è proprio così.
Nel film date voce a 13 rider che lavorano in diverse città europee. Esiste un profilo tipo di queste persone? LC: A Milano molti rider sono uomini con un passato migratorio. In realtà, però, non esiste un profilo tipo di queste persone. Le testimonianze che abbiamo raccolto sono infatti eterogenee e discordanti tra loro: c’è chi ha un approccio più entusiasta verso la piattaforma, chi invece si sente oppresso e denuncia lo sfruttamento e l’alienazione; c’è chi fa questo mestiere per scelta, chi perché non ha alternative. Il punto comune è però la natura di questo lavoro: in tutte le città le multinazionali del settore regolano il loro funzionamento in maniera molto simile. Alla base di tutto vi è il famoso algoritmo. Ma nessuno di chi lavora ha idea di chi ci sia dietro a questa tecnologia che di fatto li domina e li controlla.
Life is a game, la vita è un gioco. Tra i funzionamenti di queste piattaforme vi è quella che viene definita gamification. Ci potete spiegare questo concetto? LQ: Avendo lavorato per queste piattaforme ho notato dei meccanismi tipici dei videogiochi, attività di cui sono appassionato. Penso ad esempio all’interfaccia grafica, alle musichette o alle strategie per creare tensione come i timer che indicano il tempo mancante per prendere una decisione. Vi sono poi anche tutti dei meccanismi di punteggio e di penalità che ti permettono di accedere a nuove commissioni, così come degli elementi di strategia (capire ad esempio se è conveniente accettare la consegna rispetto alla cifra offerta) che sono tipiche dei videogiochi. Questa dimensione è andata aumentando negli ultimi anni ed è sempre più evidente. Insomma, ti sembra di giocare ma in realtà stai lavorando… LQ: Sì, è questo il paradosso: sei immerso come in un videogioco, ma stai facendo un lavoro pericoloso, nel traffico, con tutte le condizioni meteo. Ma non vi è solo questo aspetto. Dalle testimonianze che abbiamo raccolto, emerge anche l’inquietante relazione tra i lavoratori e le lavoratrici e l’algoritmo, che assume il ruolo di datore di lavoro apatico, inafferrabile, ma dominante. Insomma, sembra un gioco, ma in realtà non lo è per niente.
Avete scelto di integrare le interviste con la storia animata di un personaggio inventato, Emma. Chi è Emma? LC: Emma è una rider che vive tutta una serie di episodi e situazioni che ci sono state raccontate o che abbiamo appreso dalla cronaca e che abbiamo voluto fare confluire in un unico personaggio. L’animazione è una sorta di espediente per mettersi negli occhi di una ciclofattorina e per farci capire cosa significhi fare questo lavoro. LQ: Le parti di animazione non sono altro che una simulazione del lavoro di una rider per una piattaforma inesistente ma verosimile. Potremmo dire che le vicende di Emma sono tratte da una storia vera, con alcuni episodi che ho vissuto io stesso. L’idea è stata quella di utilizzare l’animazione per raccontare un mondo che, essendo basato sull’esperienza, è molto più immediato e facile da comprendere con l’esperienza stessa piuttosto che con le sole parole. Il rider non solo lavora per la piattaforma, ma fornisce alla stessa diversi dati che sappiamo essere una merce sempre più redditizia. Come vengono utilizzati questi dati dalle società che controllano le piattaforme? LC: Va chiarito subito un aspetto: non sono solo i rider a fornire informazioni alle piattaforme, ma anche gli utenti e gli stessi ristoratori. Non si sa bene come e per cosa vengano utilizzati questi dati, ma è certo che essi hanno un aspetto cruciale. Certo è che con questa massa di informazioni non solo si può controllare il lavoratore e metterlo in concorrenza con i colleghi, ma si possono affinare nel dettaglio le abitudini dei clienti e, in generale, di un determinato territorio. Non è un caso, ad esempio, se nelle grandi città sono sorte le cosiddette ghost kitchen, delle cucine fantasma destinate solo alla consegna a domicilio controllate dalle stesse piattaforme. Grazie ai dati di cui dispongono, queste ultime sanno nel dettaglio quale tipo di cibo è più richiesto in una determinata zona della città.
Il settore è per natura antisindacale. Avete osservato delle forme di resistenza collettiva tra i rider? LC: I sindacati fanno fatica ad agire in questo settore. La sindacalizzazione è un processo molto lento, difficile da mettere in atto in un mondo come quello dei rider dove vi è un continuo ricambio di manodopera. Un mondo dove ci sono anche molti lavoratori migranti, che non conoscono la lingua e le leggi o che sono troppo vulnerabili per correre “il rischio” di sindacalizzarsi. Nonostante ciò si è assistito alla nascita di alcuni collettivi o di forme di sindacalismo dal basso che cercano di coalizzare questi lavoratori e lottare per maggiori diritti. Una sorta di autoorganizzazione sindacale che ha portato anche a degli scioperi e a migliorare determinate situazioni.
LQ: Molti rider provengono da paesi dove vi è un po’ il mito del self made man, dell’uomo che si fa da solo. La professione del rider per una piattaforma va in questa direzione e alcune persone vedono questo mestiere come il primo punto da cui partire per affermarsi in un paese straniero. Questa situazione si scontra però con il fatto che in molto paesi europei vi è comunque una tradizione storica di rivendicazione dei diritti. Mi viene in mente il film La classe operaia va in paradiso (Elio Petri, 1971), dove il protagonista è contento di lavorare a cottimo e a ritmi infernali per potersi permettere vari beni di consumo, non capendo però che ciò è dannoso per gli altri. La speranza è che prima o poi si crei una sorta di coscienza di classe che possa portare a migliorare la situazione per tutti. Uno degli obiettivi del film è proprio quello di stimolare la riflessione in questo senso.
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