Erano i giorni di Pasqua quando giungemmo a São Luis do Maranhao. La sera del sabato santo, dopo mezzanotte, il rimbombo dei tamburi ci attirò verso la parte bassa della città, la più vecchia, quella dietro il porto. Moltissima gente assisteva e rideva ascoltando un cantante che intonava strofe satiriche. Lo accompagnava il ritmo assordante di una trentina di tamburi e altrettante castanheta, due parallelepipedi di legno che vengono picchiati uno contro l’altro. Tra loro si aggirava un toro nero, o almeno la maschera di esso, che danzava portato sulle spalle da un uomo. Nel regno della caïpirinha, 40 centesimi svizzeri al bicchiere, riuscirono a spiegarci che quella era la Matinha do bumba meu boi, la "pre-apertura" del carnevale locale, un po’ come succede a Zurigo l’undici novembre alle undici. Le sue origini non sono documentate ma risalgono a oltre 200 anni fa. Il carnevale vero e proprio inizia il giorno di S.Giovanni, per protrarsi fino a metà agosto. La leggenda che vi si racconta, parla di una giovane donna incinta con una gran voglia di mangiare la lingua lessa del più bel toro della zona. Tanto insistette da convincere suo marito Chico ad uccidere l’animale per offrirgliela. Ben presto gli altri si accorsero del misfatto, e non tardarono a scoprirne l’autore per sottoporlo a processo, ma grazie alle arti magiche il toro fu resuscitato e Chico perdonato e restituito alla moglie Catarina. I gruppi che rappresentano nelle strade questa vicenda lo fanno in modi diversi, con costumi che differiscono secondo l’origine etnica dei partecipanti (portoghese, africana o india) e della loro antichità. Se passate da São Luis andate al Museo do centro de cultura popular, dove troverete una ricca collezione di costumi e maschere del Bumba meu boi, oltre a un giovane veramente appassionato e competente per parlarvene. Per il resto São Luis do Maranhao è una città con un centro storico formato da belle case del settecento, la maggior parte delle quali rivestite dagli azulejos, le piastrelle tipiche della penisola iberica e impreziosite da ferri battuti che adornano finestre e balconcini. Ce ne sono di mille motivi e colori. L’Unesco ha ultimamente dichiarato quel quartiere di S.Luis patrimonio dell’umanità e il governo ha dato il via al progetto Revi ver, volto al restauro di questi edifici oggi piuttosto fatiscenti. Per ora il sito mantiene intatto tutto il suo fascino, derivante dalla bellezza di case e selciati e da quell’aria di decadenza che lo permea. Entrando in Guyana a St.Georges, un simpatico doganiere francese mi racconta di essere nato in Madagascar, di aver prestato servizio militare in Somalia, dove ha visto il Negus, di avere poi seguito sul Mar Rosso le tracce di Henri de Monfreid (La croisière du hashish, Les secrets de la Mer Rouge) e di Rimbaud, di aver sposato una brasiliana e di aver cominciato a chiedersi in quale paese andrà a vivere il suo pensionamento, forse in Perù, forse in Bolivia, chissà… Intanto sulla corriera avevamo conosciuto una famiglia composta da un padre francese, una madre boliviana e due figli, gemelli di otto anni. Vivono in una casetta di legno (solo pavimento e tetto) costruita, con l’aiuto di un altro ticinese di passaggio, in una radura che si sono creati disboscando un pezzetto di foresta vergine. È ormai sera e ci offrono la possibilità di appendere le nostre amache da loro. Tornano a casa dopo un viaggio in Bolivia per trovare la mamma della signora Edith. Per una permanenza di due settimane scarse si sono fatti un mese di viaggio sul Rio delle Amazzoni fino a Manaus, hanno risalito il Rio Negro e continuato in autobus verso la Bolivia. Sono artigiani e realizzano, con il legno di bacche locali, spille, orecchini e altri ammennicoli che vendono ai turisti nei giorni di mercato. A Cayenna abbiamo finito il nostro tragitto nel Sud America, che abbandoniamo in barca a vela per andare verso il regno dei pirati, Trinidad, quindi le altre isole delle Piccole Antille. Il passaggio in barca ce lo offre Antoine, uno skipper francese al termine di un rally che in sette mesi l’ha portato qui passando per Dakar, Salvador de Bahia e Santarem sul Rio delle Amazzoni. Rimasto senza equipaggio aveva bisogno di qualcuno che svolgesse i turni di notte al timone per poter dormire un po’. Siamo riusciti a non colare a picco e in cinque giorni siamo giunti a Port of Spain, capitale di Trinidad e Tobago. Vi troviamo un mondo diverso: altri ritmi, altri colori, altri profumi, altre musiche. Samba e Forrò avevano lasciato il posto a Calypso e Soca, senza dimenticare il Reggae, musica prediletta dai molti Rasta che abitano la città. Li si riconosce dalle enormi cuffie colorate, ognuna diversa dall’altra, sotto le quali tengono i loro lunghi capelli. La città è abitata prevalentemente da gente di origine africana, mentre il resto dell’isola è occupato piuttosto da indiani,venuti a lavorare sotto contratto nel secolo scorso, al momento dell’abolizione dello schiavismo. La sera, gli abitanti si ritrovano in Indipendence Square, un lungo viale diviso al centro da un largo terrapieno dove si passeggia, si chiacchiera, si beve l’acqua di una noce di cocco o una birra da un sacchetto di carta, come negli Stati Uniti. Pur se si muovono con la tipica indolenza dei Caraibi, in città si svolge una vita frenetica che si calma durante i fine settimana, quando in molti si spostano nelle isolate spiagge della costa settentrionale. Prima di ripartire dobbiamo promettere di tornare una volta per il carnevale, che dev’essere impressionante. Con tutti i tipi di natanti esistenti: piccoli cargo, lussuosi catamarani a vela, battelli e ferry, percorriamo le isole più a nord fino alla Guadalupa. Grenada è un’isola stupenda, molto diversa da Trinidad. Niente a che vedere con l’agitazione di Port of Spain; ci si ritrova in un oasi pacifica, vent’anni dopo la famosa invasione Usa che mise fine a un periodo travagliato di lotte sanguinose tra i vari leaders del partito comunista al potere. L’isola vive della coltivazione di spezie (un terzo delle noci moscate consumate nel mondo viene da lì) e dei turisti che gettano l’ancora dei loro velieri nelle sue acque. Il profumo delle spezie invade ogni angolo, soprattutto del coloratissimo mercato della capitale, St. Georges. I colori che il mare assume nei bassifondi dei Caraibi sono proprio come quelli che si vedono nei depliant turistici, o forse ancora più incredibili con tutte le sfumature di turchese, blu cobalto e verde che si confondono poi nell’oltremare del mare aperto. Le spiagge di sabbia dorata, composta da impalpabili granelli di conchiglie e di corallo, sono bagnate da acque limpidissime e tiepide, e quando se ne esce niente di meglio di un punch per rinfrescarsi. Proprio a Granada fu inventato il Punch Planteur, da un coltivatore di canna da zucchero che una sera estasiò i suoi ospiti aggiungendo una spolverata di noce moscata grattugiata al rhum offerto agli invitati. Si tratta di rhum mescolato a sciroppo di zucchero in cui hanno macerato frutta e spezie, cui si aggiunge un goccio di granatina, succo di frutta e tanto ghiaccio. Più a nord si estende l’arcipelago delle Grenadines, stupendi isolotti politicamente divisi tra Granada e lo stato di St.Vincent and the Grenadines. Ne abbiamo visitate alcune: Carriacou, Petit Martinique, Union Island, Bequia mentre abbiamo costeggiato senza fermarci Petit St.Vincent, Moustique, Palm Island dove, sotto l’egida del dio Mammone, nobili come la principessa Margaret e plebei come Mick Jaegger, entrambi proprietari di una villa a Mustique, non disdegnano di mescolarsi la sera al bar. Purtroppo in queste isole piuttosto selvagge non c’è molto da fare oltre bagnarsi nelle baie e bere rhum, e dopo un mesetto ne abbiamo abbastanza. Anche del mal di mare che accompagna ogni trasferimento. Dalla Martinica ripartiamo quindi con entusiasmo verso il continente. Sono gli Usa che ci aspettano, questa volta, Miami e la Florida. Si torna nella "civiltà", e sarà anche più facile trovare il modo di comunicare con la redazione.

Pubblicato il 

06.07.01

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