Tra linguaggio politico, realtà economica e analisi economica la discrepanza è molta. In una campagna elettorale l’immancabile mantra che risuona è “crescita”. C’è una logica, è vero: se non c’è crescita, ogni promessa o minaccia finiranno al Monte dei pegni. Minaccia perché elettoralmente risulta sempre vincente chi ritiene che la mancata crescita è colpa di qualcuno all’esterno, che ci porta male (frontalieri, franco, Banca nazionale, Widmer-Schlumpf, Bruxelles, sindacati) e non dei propri castelli traballanti o fatiscenti. La realtà economica non sembra però muoversi nella direzione della crescita. Si cercano spiegazioni, se ne danno molte, ma non una da affrontare seriamente. O perché non si vuole o non ci si crede o perché si rovinano gli interessi a chi è comunque sistemato. Si ripropongono quindi le stesse ricette che hanno creato sconquassi e che, altra assurdità, premiano chi le ripropone: liberalizzazione, deregolamentazione, privatizzazione, defiscalizzazione, fede nel “trikle-down” (che significa “effetto sgocciolamento dall’alto verso il basso”; applicato in economia significa che i benefici economici concessi ai ricchi, ad esempio fiscalmente, vanno incrementati perché finiranno per sgocciolare sui meno abbienti o sui poveri). L’analisi economica naviga in acque ancora più lontane. Un dibattito sta agitando importanti economisti (tra cui due premi Nobel) da almeno un anno. Si può anche ignorarli, ma l’interrogativo che ci pongono non lascia indifferenti: e se la crescita non torna più? C’è chi sostiene la tesi della “stagnazione secolare” (come Lawrence Summers, ex segretario al Tesoro di Clinton e professore ad Harvard). Fermi al palo e addio speranze di crescita. La spiegazione è complicata ma, ridotta all’osso, potremmo tradurla in questi termini: i tassi di interesse sono stati spinti al ribasso sia per scarso ricorso agli investimenti da parte dell’economia reale, sia perché gli utili d’impresa finiscono in dividendi o guadagni di capitale e sempre meno in reinvestimenti, sia perché l’offerta di risparmio diventa così sovrabbondante, sia perché la crescita delle ineguaglianze accumula le ricchezze in poche mani e finisce per immobilizzare il risparmio o portarlo su giochi speculativi perversi. Il problema che ne deriva (acuto anche in Svizzera) è che la politica monetaria si trova di fronte a un tragico dilemma: o propone tassi di interesse reali negativi nel tentativo di promuovere investimenti, crescita, occupazione oppure, con tassi di interesse pressoché nulli, facilita l’indebitamento (non a caso di parla di “bolla immobiliare”) o alimenta la speculazione finanziaria (usare il facile credito per investire in speculazioni). Altri economisti sono invece convinti che i tassi di interesse ripartiranno presto al rialzo in tutto il mondo per una forte riduzione dell’offerta di capitali sia da parte della Cina, più volta al suo mercato interno, sia da parte dei paesi produttori di petrolio che, con la riduzione dei prezzi, hanno meno liquidità da sistemare. Ottimisti. Impossibile pronunciarsi, ma anche le piccole realtà economiche non possono prescindere da questo contesto. Se dovessimo anche sperare su un ritorno sostenibile della crescita, bisognerà comunque rendersi conto che la torta non crescerà di molto per ovvii limiti e per saturazione e che dovrà essere ripartita diversamente: sia con una riduzione del tempo di lavoro, senza perdita di guadagno, affinché tutti possano lavorare, sia con una inevitabile politica fiscale che sappia ridurre le ineguaglianze. Non è utopia, sarà logica obbligata.
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