La terra rimossa

Sono in distribuzione in queste settimane nella Svizzera tedesca i primi due film di una delle più interessanti promesse della cinematografia elvetica, la regista originaria di Sarajevo Andrea Staka, nata a Lucerna 28 anni fa, che oggi vive fra Zurigo e New York. I film sono il cortometraggio di fiction «Hotel Belgrad» (1998) e il documentario della durata di circa un’ora «Yugodivas» (2000), proposti in un’unica sessione. Il primo film è la storia di una giovane coppia che si ama ma che è ormai divisa dalle distanze e dalla guerra che s’è frapposta nel loro amore: lei vive in Svizzera, lui a Belgrado, la comunicazione diventa impossibile. «Yugodivas» è invece il ritratto di cinque giovani artiste serbe che, indipendentemente l’una dall’altra, hanno deciso di vivere a New York. Sono la pittrice Vesna Golubovic, l’attrice Mirjana Jokovic (che fu la protagonista di «Underground» di Emir Kusturica) e le tre musiciste Milica Paranosic, Sandra Vojcic e Danijela Popovic del gruppo «D’Divaz». Tutte e cinque hanno lasciato Belgrado prima della guerra, hanno lasciato una patria che ora non c’è più. In «Yugodivas» (nominato per il Premio del Cinema svizzero per il miglior documentario) Staka incontra e interroga, ma più che altro osserva: e sa prendersi il tempo per ascoltare i silenzi e gli sguardi di esilii più dolorosi di quanto le protagoniste non vogliano ammettere. Andrea Staka, nei suoi primi due film, «Hotel Belgrad» e «Yugodivas», lei che è originaria della ex Jugoslavia si occupa da vicino del suo Paese, dove la guerra è esplosa quando lei ha iniziato a studiare cinema. Fu solo una coincidenza? La mia origine c’entra molto con la decisione di fare del cinema. Ma non c’è un rapporto diretto. Ho studiato prima fotografia, poi mi sono resa conto che ciò che mi attirava era il cinema. Soltanto dopo è scoppiata la guerra, e da allora quel tema è stato onnipresente nella mia testa. La decisione di studiare cinema e il dolore per quanto stava per capitare nel mio Paese sono quindi maturati assieme. Provavo anche un senso di rivolta contro l’immagine della ex Jugoslavia che si stava diffondendo nel ‘92-’93: stando alla tv, sembrava abitata soltanto da barbari. Ora i media danno un’immagine più differenziata ed equilibrata della situazione. Il cinema è per lei anche un modo per esprimere dei sentimenti in relazione alla guerra che altrimenti non riuscirebbe a dire? Soprattutto il senso di impotenza. Quando ho iniziato a studiare cinema avevo l’impressione che facendo film potessi esprimere il senso di impotenza che sentivo allora di fronte al fatto che ero al sicuro, a Zurigo, mentre i miei parenti e i miei amici erano a Sarajevo sotto le bombe. D’altro canto il tema della Jugoslavia è stato trattato dai media con immagini forti e sensazionalistiche, e sentivo il bisogno di affrontarlo da un punto di vista più emozionale. Voglio mostrare l’indicibile, ma nel contempo reagire al gran bisogno di spiegazioni, di parole, di commenti. È un esercizio rischioso, quello di fare del cinema con dei silenzi che si spera siano espressivi, le probabilità che non riesca sono molte. Certo non ho l’approccio di chi in guerra ha perso dei parenti stretti, ma sono molto legata al mio Paese, e volevo mostrare che anche persone come me subiscono fortemente una guerra pur senza viverla direttamente. Come è capitato ai due giovani protagonisti di «Hotel Belgrad», la guerra s’è insinuata nella vita di tutti coloro che in qualche modo hanno una relazione forte con la Jugoslavia, che lo volessero o no. È stato difficile finanziare la produzione di «Yugodivas»? La produzione no, anche perché «Yugodivas» era una produzione modesta. Molto più difficile è stato trovare un distributore che permettesse l’uscita del film nelle sale, avevo quasi perso la speranza. Credo che un film che parla oggi di serbi, anzi di gente di Belgrado, mette molto a disagio, provoca reazioni di fastidio e di rifiuto. Anche per questo alle tv «Yugodivas» interessa poco: non appena si accenna alla Jugoslavia gli acquirenti cambiano discorso, vogliono altro. Come mai questo rifiuto? Se n’è forse parlato troppo, in maniera sensazionalistica e poco differenziata. Eppoi c’è la difficoltà a trattare il tema della Serbia di oggi: non c’è ancora un concetto chiaro né nell’Europa istituzionale né nelle redazioni su come la si debba affrontare. Così la si evita. Questa diffidenza nei confronti di «Yugodivas» mi ha delusa, perché nei festival il film ha sempre suscitato una buona reazione. In qualche modo s’è riconosciuta nelle sei donne di «Yugodivas» o ha trovato che rispetto a lei siano più forti le differenze? Ho riscontrato soprattutto grosse differenze. Prima del film non le conoscevo. Sono nate subito da un lato forti simpatie, dall’altro paure e diffidenze da parte loro per l’immagine che ne avrei dato. Il rapporto s’è consolidato durante le riprese, ci siamo aperte a vicenda. All’inizio credevo che avessero un dolore più forte del mio e che lo potessero esprimere. La maggior parte di chi ha lasciato la ex Jugoslavia è stata costretta a farlo. Loro invece hanno vissuto a Belgrado un’infanzia serena e, giunte all’età adulta, prima della guerra, hanno deciso di trasferirsi a New York scegliendo di chiudere il loro rapporto con la città natale. Io sono per contro nata e cresciuta in Svizzera, ma ho voluto mantenere un rapporto molto forte con il mio Paese d’origine, in particolare con la Bosnia. D’altro canto loro cercano di ignorare quanto grossa sia la perdita che vivono, e in effetti hanno paura a parlare di questi sentimenti rispetto alla Serbia. Da cosa viene questo senso di colpa? Da un lato dall’essere partita prima che accadesse qualcosa che ha sconvolto la vita di persone che ami: tu sei al sicuro mentre loro sono in pericolo (se non diretto, almeno come effetto psicologico). Io stessa avevo l’impressione di dovermi scusare per il fatto che andavo al cinema mentre i miei parenti e gli amici se ne stavano sotto le bombe. D’altro lato i serbi sentono una colpa collettiva attribuita loro dall’opinione pubblica e dai media. E più cercano di spiegare qual è la situazione dal loro punto di vista, più ritengono di doversi giustificare. Credo che fra le righe emerga anche la difficoltà di girare un documentario in queste condizioni. Perché ha scelto per «Yugodivas» di fare il ritratto di sei artiste? Anche in altre professioni avrei trovato donne con cose interessanti da raccontare. Il fatto è che tutti qui conoscono una cameriera croata o un muratore serbo. Inoltre, come tutti, anche queste artiste hanno degli argomenti di cui non vogliono parlare, ma poi esprimono i loro sentimenti attraverso l’arte: non riescono a rimuovere tutto, sono più trasparenti. Hanno una sorprendente incapacità ad esprimersi a parole, una sorta di blocco verbale, che anche nel film compensano con la loro arte. Del resto, anche nei media le giovani donne serbe non hanno quasi mai la parola. Anche nel prossimo film continuerà ad occuparsi della ex Jugoslavia? Sto scrivendo una sceneggiatura per un lungometraggio di fiction che tratterà ancora questi temi. Sono argomenti che non finiscono mai, non si possono esaurire. Inoltre la Svizzera sta abituandosi all’idea di essere costituita da molte culture, di cui alcune di origine esterna ai suoi confini: si sta sempre più accettando che gente nata qui abbia radici in tutt’altro posto. L’identità della Svizzera ne rimarrà molto cambiata. Credo però che il nostro cinema debba fare ancora uno sforzo per rappresentare davvero tutte le culture che abitano la Svizzera. I miei film vogliono essere (anche) un contributo in questa direzione.

Pubblicato il

30.11.2001 05:30
Gianfranco Helbling
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