È bastata una telefonata di Obama al presidente iraniano Hassan Rohani per cancellare 34 anni di silenzi ufficiali tra i due paesi. Rohani ha forse evitato un incontro diretto a New York con Obama per evitare polemiche con i conservatori e gli ultra-conservatori all’interno del suo paese. Non solo: a frenare l’entusiasmo è intervenuto lo scorso sabato la guida suprema Ali Khamenei. In un discorso alle Forze armate, Khamenei ha definito «inaffidabili» gli Stati Uniti. Da mesi, Obama aveva chiesto al segretario di Stato John Kerry di avviare negoziati ad alto livello sul programma nucleare iraniano. E così, il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif e Kerry si sono incontrati in privato dopo aver preso parte agli ultimi colloqui del gruppo 5+1 (membri del Consiglio di sicurezza e Germania) sul programma nucleare (il cui prossimo appuntamento sarà in Svizzera tra una settimana). Di particolare rilievo per creare un nuovo clima di collaborazione, è stata l’intervista in inglese di Rohani alla Cnn in cui ha assicurato pace e amicizia agli americani, aggiungendo di riconoscere l’Olocausto come crimine contro gli ebrei, rivedendo così la posizione negazionista del suo predecessore Ahmadinejad. E così il filo diretto tra Washington e Teheran potrebbe nascondere un nuovo corso nella politica estera della Repubblica islamica, in continuità con la presidenza riformista di Mohammed Khatami (1997), che seppe rompere l’isolamento seguito alla Rivoluzione del 1979 promovendo quello che lui stesso chiamava “dialogo tra le civiltà”. La priorità di Teheran è sempre il controllo dello stretto di Hormuz che da secoli ha permesso il più ampio dominio sul Golfo Persico. Ma anche di contenere le crisi in Siria, Iraq e Afghanistan. Proprio l’attacco all’Iraq del 2003 ha visto l’Iran giocare un ruolo di “neutralità attiva”. Infatti, già un anno prima dell’attacco americano, i contatti tra il Consiglio supremo della Rivoluzione islamica in Iraq (Sciri) e Ahmed Chalabi, leader dell’allora maggior gruppo di opposizione al partito baathista, il Congresso nazionale Iracheno, si erano intensificati. Ora, l’instabilità in Iraq è un problema serio per la sicurezza iraniana, e per questo un riavvicinamento con Washington potrebbe facilitare la fine della lunghissima e ancora sanguinosa crisi irachena. Le parole di Rohani potrebbero aprire poi le porte ad un riavvicinamento con l’Arabia Saudita (il primo incontro con l’allora principe Abdallah avvenne proprio all’epoca della presidenza del principale leader tecnocrate Hashemi Rafsanjani, nel 1991). L’indebolimento dell’Islam politico con la fine della presidenza dei Fratelli musulmani in Egitto e la momentanea frammentazione dei ribelli siriani potrebbero riaprire il dialogo tra Teheran e Riyad, avviato con l’avvento del riformismo. Con Khatami, l’Arabia Saudita non era più “il nemico dell’Islam” ma un “pilastro”, assieme all’Iran, della comunità islamica. Infine, lo storico colloquio tra Obama e Rohani fa il gioco dell’opposizione interna (ora al governo a Teheran), vicina ai tecnocrati, che ha grande seguito nei circoli politici di Washington e spinge alla distensione con la leadership iraniana per mantenere in vita la Repubblica islamica. Questa opposizione parallela è vista con grande scetticismo dalla diaspora iraniana negli Stati Uniti che resta fortemente anti-regime e, come è avvenuto nel 2009, continua a spingere per la fine del governo degli ayatollah. |