Quasi all’unisono, commentatori di giornali o riviste scrivono che il 2025 comincia il 20 gennaio, quando Donald Trump riprende le funzioni di presidente degli Stati Uniti. Benché – osservano – le conseguenze sono facili da prevedere: si frantumerà ulteriormente l’ordine politico-economico mondiale e si metteranno maggiormente a repentaglio i principi su cui si fondano le democrazie europee, democrazie troppo facili a cedere e assecondare idee, politiche e modi che si affermano da quelle parti. Un altro discorso affiora però tra chi è tentato di ripercorrere la storia politica e la storia economica. Discorso che preoccupa o allarma poiché potremmo finirne avviluppati. Si parte dal principio che un presidente americano può nasconderne un altro. O tre altri. Trump è spesso presentato come l’erede di Reagan: non vi è estraneo il fatto che gli abbia rubato lo slogan: “Far nuovamente grande l’America” (l’ormai famoso MAGA, Make America Great Again). Oppure anche il loro comune gusto da vecchi attori per i “punchlines”, i propositi muscolosi o gli sfrontati richiami fascistoidi che colpiscono come pugni. L’ ispirazione economica di Trump va cercata nella storia. Appare infatti come fotocopia di quelli che furono definiti i “Roaring Twenties”, “i folli anni Venti”. Riduzione drastica delle imposte per i più ricchi, unico avvenire del Paese. Tanto da chiamare una corona di miliardari a dirigerlo. Riduzione delle spese federali (non militari, dell’amministrazione pubblica, con sfoltimenti massicci), deregolamentazione a tutto campo, serrata limitazione dell’immigrazione, protezionismo e aumento delle tariffe doganali. Tutte quelle misure di allora costituiscono la colonna vertebrale della cosiddetta “maganomics”, dell’economia trumpiana. E quanta di essa ha già attecchito o è importata anche dalle nostre parti quasi legge suprema imposta? Sono misure pressoché identiche alle politiche promosse da Warren Harding, Calvin Coolidge, Herbert Hoover: i presidenti americani fervidi seguaci del “laissez-faire” negli affari economici, della liberalizzazione rapace dell’economia americana per stimolarne l’espansione ed estenderne l’impero, proteggendola dalla concorrenza straniera, sempre ritenuta sleale. E quindi tariffe doganali del 40% nel 1922, portate al 60 negli anni Trenta. Anche a quell’epoca un miliardario, il banchiere e industriale Andrew Mellon, diventa, come capita oggi, segretario al Tesoro. L’unilateralismo di Trump è la perfetta eco dell’isolazionismo di quegli anni. Gli “anni folli” non hanno usurpato il loro nome. Dapprima perché l’economia americana crebbe del 42 per cento, al ritmo del 4 per cento all’anno. Poi perché sulla soglia degli anni Trenta avvenne lo svuotamento economico, il crac, dapprima borsistico e poi il crollo generale che si diffuse come pandemia nel mondo intero con la disoccupazione e la miseria. E pose le premesse per l’avvento di Hitler e Mussolini e per una guerra estrema. La storia non si ripete, si dice. L’economia sì, perché nonostante tutto ha una sua logica matematica. Si stanno quindi preparando conseguenze analoghe? C’è chi lo teme già, ritenendo un segnale persino i primati che inanella Wall Street o il prezzo dell’oro che sale alle stelle. O sostenendo che siamo ormai già dentro il gennaio 1929 e non agli inizi degli anni Venti. La storia potrebbe almeno insegnarci a renderci meno americanamente o trumpianamente subalterni e folli o anche economicamente ed egoisticamente meno calcolatori e più “europei” con l’Europa. |