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La speranza è vita in Palestina
di
Emanuele Confortin
In un momento in cui leader politici, capi di governo e intellettuali di tutto il mondo si preparano alla bagarre di Annapolis, esiste un universo parallelo di persone che vivono l'attesa lontano dai riflettori e incerte sul proprio futuro. Sono uomini, donne e bambini prigionieri nella loro terra, la Palestina, chiamata anche Cisgiordania, West Bank, o semplicemente Territori Occupati. È lì che a fine ottobre abbiamo cercato la gente comune, e osservato la vita di chi ogni giorno sbatte contro un muro di 8 metri o una recinzione elettrificata, oltre i quali l'Occidente vorrebbe pianificare la loro sorte.
La detenzione amministrativa
Siamo a Deishe, uno dei maggiori campi profughi di Betlemme dove vive Yaser Meshal, marito, padre di tre figli ed ex dissidente politico, che guida l'ambulanza per le Nazioni Unite. Tra l'82 e il '92 è stato imprigionato 7 volte, colpevole di essersi opposto politicamente all'occupazione israeliana. «Il giorno del mio matrimonio i militari sono venuti a prendermi, incarcerandomi per 3 anni, per questo non ho visto nascere mia figlia». Una volta fuori, Yaser ha continuato ad opporsi all'esercito, tornando più volte dietro le sbarre, in un caso per aver issato a casa la bandiera palestinese. «Conoscevo le conseguenze, ma ho voluto dimostrare che noi esistiamo, così come la Palestina». Tuttavia, l'esperienza di Yaser non è un caso unico, ma rientra nella strategia di controllo imposta dal governo israeliano, soprattutto dopo la seconda intifada, con l'applicazione del "fermo amministrativo". Ce ne parla Grazia Careccia, operatrice italiana di Al Haq, organizzazione per i diritti umani: «l'esercito ha la possibilità di arrestare chiunque per un periodo di 3 mesi, al termine del quale può esserci una proroga a tempo indeterminato, il tutto in nome della "sicurezza dello stato di Israele"». Con questa motivazione, tutte le prove a carico degli imputati restano segrete (anche dopo il rilascio), rendendo impossibile il lavoro dei difensori e vanificando ogni tentativo di ricorso.
Le strategie di occupazione
Fuori dai centri principali, in direzione di Ramallah vediamo degli out-post: "embrioni" abitativi composti da container e roulotte, circondati da reti elettrificate e filo spinato. Qui vivono famiglie di israeliani, strenui sostenitori della causa sionista, tanto da sfidare il loro stesso governo che ufficialmente giudica illegali questi proto-insediamenti. Salvo poi fornire elettricità, linea telefonica e servizi, assieme a risorse militari per garantire la sicurezza. I segnali che precedono l'arrivo delle gru, la costruzione di qualche casa in muratura ed ecco la nascita di una nuova colonia, in pieno territorio palestinese, quindi illegale. A questo punto serve terra, per assecondare la "naturale crescita dell'insediamento", sottratta a suon di ruspe dagli oliveti circostanti. Seguono nuove recinzioni, e il blocco delle fonti idriche attraverso la costruzione di pompe e tubature che danno l'esclusiva ai coloni. Infine arrivano nuove strade riservate agli israeliani, necessarie per collegare i diversi insediamenti, e dividere la Cisgiordania.
La resistenza continua
Uno degli aspetti più sorprendenti dei palestinesi è la loro ferma determinazione a non lasciare la propria terra. Subiscono violenze e privazioni tali che basterebbero a giustificare la fuga, lontano dall'inferno della Terra Santa. Tuttavia, in Palestina la vita continua come forma di resistenza, più forte della lotta armata ormai ridotta ad un confronto tra Davide e Golia. In casa mancano soldi e lavoro, ma i genitori mandano i figli all'università sostenendo rette più costose delle nostre. Città come Hebron sono soffocate dall'esercito, ma i venditori continuano ad esporre souvenir ammuffiti, in attesa dei turisti che non arrivano. E il venditore di tè, con il suo negozietto di fronte alla base israeliana, costretto a chiudere ogni 15 giorni, per riaprire l'indomani. Poi la famiglia cristiana di Betlemme: padre falegname, un figlio medico, l'altro laureato in business management e la figlia insegnante di informatica, che si guadagnano da vivere intagliando presepi nel legno d'ulivo.
Nablus, la "Testa del Serpente"
Un tempo capitale economica e culturale della Palestina, Nablus è la città simbolo della resistenza, ribattezzata "la Testa del Serpente" dai giornali di Tel Aviv. L'aria di qui è pesante, colpa della costante pressione militare israeliana, volta a snidare i combattenti e gli attivisti politici. Impressionante la descrizione delle tecniche di incursione dei soldati, soliti aprire dei fori nei muri delle case, infilandosi poi all'interno per uscirne dall'altra parte, giungendo ad un'altra parete da forare e cosi via, sfasciando anche 30 abitazioni in una sola incursione, fino a raggiungere il centro della città vecchia, o uno dei tre campi profughi. Tecnica necessaria per sottrarsi alle sassaiole dei giovani, abituati a difendersi così dalle aggressioni, spesso a costo della vita. Bel paradosso: uno dei più potenti eserciti della terra, munito di armi sofisticate e mezzi corazzati, messo in crisi da bande di ragazzi senza un futuro, armati di sassi e fionde. «Negli ultimi 6 anni sono morte 975 persone a Nablus – spiega il dottor Ghassan del Medical Relief –, oltre a 7 mila feriti mille dei quali hanno riportato disabilità permanenti». Ci spiega come da tempo sia cresciuta la pressione militare, assieme all'uso di nuove armi di precisione in grado di provocare ferite terribili, dovute a «particolari schegge mai viste prima, di materiale quasi polveroso, in grado di spappolare gli organi interni e non rintracciabili ai raggi x. Sono armi in uso da tempo nella striscia di Gaza e considerate sperimentali, per questo non escludo siano presto proibite dalle autorità internazionali». Oltre la clinica sorge il campo profughi di Balata, uno spazio esiguo per 25 mila abitanti. Ci inoltriamo tra i vicoli larghi 50 centimetri, districandoci in un groviglio di tubi e calcinacci che conducono al centro giovanile, dove di giorno giocano i bambini, gli stessi che la notte non riescono a dormire per paura dei raid israeliani.
Lasciamo questa terra con la chiara impressione che il veleno sia frutto dell'occupazione, capace di stritolare migliaia di esistenze e alimentare la tensione nelle strade. Non possiamo però scordare l'ottimismo di alcuni, se non molti, convinti che la Palestina ce la farà: «basta non lasciare le nostre terre e continuare a vivere ogni giorno senza fuggire. Questa è la nostra resistenza!».
Pubblicato il
23.11.07
Edizione cartacea
Anno X numero 47
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