La speranza di un Continente

Quando nel dicembre del 1998 l'ex-colonnello dei parà Hugo Chávez Frias irruppe con la forza di un uragano – “el huracan Hugo” – sulla scena politica del Venezuela, vincendo a valanga le elezioni, il petrolio costava 10 dollari al barile. Quando è morto per il maledetto e inestirpabile cancro che lo ha ucciso il 5 marzo 2013, il prezzo del barile era sopra i 100 dollari.

 

La montagna di dollari che “il Venezuela saudita” ha incamerato nei 15 anni di governo di Chávez sono serviti a finanziare il suo grande e visionario progetto di cambio – lo si chiami “rivoluzione bolivariana”, “socialismo del secolo XXI” o, più propriamente, riformismo radicale – che ha sconvolto (in senso positivo) il Venezuela, ha cambiato la storia dell'America latina e in qualche misura ha intaccato anche il modello apparentemente intoccabile dei rapporti politico-economici globali grazie al “multilateralismo” chavista (con Cina, Russia, Iran, con “i sud del mondo”).

 

Quando l'ex-parà golpista del ’92 fu democraticamente eletto per la prima volta presidente, l'America latina era ancora sotto il tallone mortifero del neo-liberismo. L'ondata che poi portò in rapida sequenza alla ribalta i leader di sinistra o progressisti – i Lula e Dilma Rousseff in Brasile, i Morales in Bolivia, i Correa in Ecuador, i Néstor e Cristina Kirchner in Argentina, i Tabaré Vazquez e poi Pepe Mujica in Uruguay, i Lugo in Paraguay e persino i Manuel Zelaya nel desolato Honduras – cancellando il trentennale ruolo di triste laboratorio sperimentale neo-liberista governato dal “consenso di Washington” e facendone un “continente della speranza” assai più consistente di quello ipotizzato a suo tempo da papa Wojtyla, la si deve non certo solo ma anche a lui.

 

Hugo Chávez Frias, l'ex-parà golpista, il “caudillo autoritario e populista” , visto allora dalla sinistra latino-americana ed europea (l'ex-Pci italiano e il Psoe spagnolo e via di seguito) come un personaggio ambiguo o al massimo folcloristico che “sperperava” il petrolio, “il sangue del Venezuela”, a fini politici.
In effetti lo “sperperava” per ridurre della metà il livello di povertà e indigenza in cui languiva, nel paese più ricco al mondo di risorse petrolifere, il 70 per cento della popolazione. Per avviare un programma senza precedenti di “missioni” sociali, soprattutto nei campi dell’educazione, della sanità, casa, alimentazione, infrastrutture, inclusione in luogo della emarginazione, condizioni di lavoro che ha sostanzialmente migliorato la vita dell'immensa maggioranza della popolazione. Per riappropriarsi di una parte consistente delle risorse nazionali attraverso più di mille nazionalizzazioni (peraltro quasi sempre pagate a prezzi di mercato).
Per portare avanti il difficile processo dell'integrazione latino-americana sulla base del sogno bolivariano della “Patria grande” e di relazioni che superassero il vecchio schema dell'interscambio commerciale (il caso classico è lo scambio di petrolio venezuelano contro medici e maestri cubani). Per entrare o fondare qualsiasi forma di organizzazione regionale che aiutasse non solo il Venezuela ma l'America latina a cessare di essere “el patio trasero”, il cortile di casa degli Stati uniti: Mercosur, Alba al posto dell'Alca, Celac al posto dell'Osa (il “ministero delle colonie” degli Stati Uniti), Unasur, Banco del Sur, PetroCaribe, TeleSur...
Per alimentare il suo multilateralismo antimperialista, nella convinzione che fosse l'unico modo di frenare l'unilateralismo Usa (che toccò il suo apice all'interno nel tentativo di golpe nel 2002 e all'esterno nell'invasione di Afghanistan e Iraq).

 

Ce n'era più che a sufficienza per fare di Hugo Chávez “un demonio”, come ha scritto Eduardo Galeano.
Ora che è morto si capisce che Hugo Chávez è stato il leader politico democratico più carismatico degli ultimi decenni. La sua scomparsa fa capire quanto ha pesato in America latina la sua personalità complessa e generosa. Il problema del carisma è che finisce con il leader. Restano da dirimere le incognite del dopo-Chávez. Non solo in Venezuela ma in America latina dove svolgeva una funzione di grande tessitore di rapporti. Il limite di Chávez non è stato tanto la indefinitezza e le ambiguità del suo “socialismo del secolo XXI”, un concetto work in progress da “riempire” nella teoria e nella pratica; né la indefinitezza e le ambiguità della sua “democrazia partecipativa” al posto della tradizionale democrazia rappresentativa in crisi. Il limite di Chávez è stato semmai non aver saputo o potuto costruire intorno a sé – fatte salve possibili sorprese – una leadership “bolivariana” capace di prenderne il testimone.

 

È probabile che sull'onda emotiva della morte del leader, Nicolas Maduro, l'ex-ministro degli esteri indicato da Chavez come suo delfino, vinca le nuove elezioni presidenziali del 14 aprile. Ma poi i nuovi leader dovranno cominciare a camminare da soli. Un cammino non facile per le varie e conflittuali anime del chavismo. Le cose da capire sono tante. Se reggeranno i delicati equilibri raggiunti nelle ultime settimane dell'agonia del leader nella clinica dell'Avana, in tutta evidenza discussi e sollecitati (anche) dalle autorità cubane, Raul e lo stesso Fidel, interessatissimi per ovvie ragioni pratiche e ideali alle sorti del Venezuela bolivariano.

 

Se reggerà l'accordo fra quelli che per ora appaiono gli eredi designati e accreditati – Maduro; il presidente dell'Assemblea Nazionale Diosdado Caballo, ex-militare e gradito ai militari, ancorché discusso esponente di quella “boliborguesia” che non nasconde la sua recente ricchezza; Elias Jaua, il nuovo ministro degli esteri – ovvero se cammin facendo appariranno nuovi pretendenti. Bisognerà capire il ruolo che avranno i militari che l'ex-militare Chávez ha sempre curato di persona per dar loro un ruolo “sociale” nella rivoluzione bolivariana.

 

Capire come affrontare la debolezza delle istituzioni statali, come queste si connetteranno con le istituzioni parallele create da Chávez, quel “potere popolare” che dovrebbe muovere dal basso il processo politico.
Vedere se il Psuv, il Partito socialista unito del Venezuela creato da Chávez, saprà evolversi in un luogo di dibattito reale e di sintesi fra le diverse linee, di selezione e controllo dei dirigenti, di freno alla corruzione diffusa, oppure se resterà una specie di guscio vuoto e burocratico buono per fare carriera. Vedere se il nuovo corso bolivariano saprà correggere le distorsioni di un modello economico basato ancora sull'estrattivismo e la dipendenza dal petrolio e dalle altre risorse naturali: una contraddizione presente non solo in Venezuela ma anche in altri paesi governati da governi di sinistra o progressisti – Brasile, Argentina, Ecuador, Bolivia – che blocca la diversificazione economica, distrugge l'ambiente e costituisce un aggressione costante alle popolazioni indigene.
Un'ardua sfida che il Venezuela dovrà affrontare senza più la figura agglutinante del suo leader carismatico.

 

Pubblicato il

14.03.2013 15:10
Maurizio Matteuzzi