La sorte che accomuna gli oppressi

«Questo era il costume culturale del tempo: invece di studiare le origini di un avvenimento collettivo, si isolava il protagonista e ci si limitava a farne la biografia patologica [...] per una élite sociale, gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre alcunché di barbarico e di patologico.» Antonio Gramsci, Quaderno 25, Ai margini della storia (Storia dei gruppi sociali subalterni), 1934.

L’8 giugno del 1972 Kim Phúc ha 9 anni. La piccola corre al centro della Route1, le braccia allargate, il volto sfigurato da un grido di dolore munchiano, disperato. Il suo corpo è nudo e rivela all’obiettivo i segni della pelle a brandelli; i vestiti gli sono bruciati addosso a causa delle bombe al Napalm scaricate dai bombardieri dell’esercito sudvietnamita. Al suo fianco vi sono altri bambini, uniti dallo stesso terrore. L’immagine, divenuta un simbolo contro la guerra in Vietnam, vincerà il Pulitzer.


Anche Ramzi Aburedwan ha 9 anni, ma questa volta siamo a Ramallah, Palestina, nel campo profughi di Am’ari ed è il 1988. Non vi sono tracce di paura sul suo volto, ma piuttosto la rabbia e la determinazione di chi dice “basta”, consapevole che la testa non può più essere chinata. Ramzi ha tutti i vestiti integri, ma il dettaglio più importante della celebre foto che lo ritrae si trova nelle sue mani: Il bimbo stringe due grossi sassi e appare in procinto di lanciarli contro un tank israeliano. L’immagine sarà assunta a icona, rivelando al mondo l’esistenza dei “bambini delle pietre”, fra i protagonisti della prima Intifada.


Non conosciamo il nome, né tantomeno l’età del bambino sudanese che compare in un’altra foto vincitrice del Pulitzer nel 1993. Tutti ricordiamo però l’immagine del piccolo prostrato al suolo, la pancia gonfia per la sindrome Kwashiorkor che contrasta con le sue costole sporgenti. Alle sue spalle un avvoltoio osserva il suo corpo esanime.


L’infanzia è da sempre simbolo d’innocenza, sarà forse questo a smuovere le coscienze dei più. Nei Quaderni dal carcere Gramsci commenta le osservazioni di Cesare Lombroso: la deviazione del singolo criminale è ricondotta alla patologia, all’individuo.


Oggi la migrazione è analizzata (e criminalizzata) in quanto problema e le ragioni che spingono un essere umano a migrare sono valutate in rapporto alle nozione astratta della legittimità.


La foto di Aylan Kurdi, riverso sulla spiaggia turca con la faccia scalfita dalle onde, sta facendo in questi giorni il giro del mondo. Aylan scappava da Kobane, la città kurda che eroicamente resiste ai tagliagole di Daesh.
Storicamente il capitalismo è un sistema che genera imperialismo, guerre e occupazioni; rispetto a esso la neutralità non può essere un’opzione. Tale fattore accomuna le storie di queste immagini: esse non sono il ritratto dell’umana empatia verso i deboli, ma la manifestazione della sorte che accomuna gli oppressi. Le origini di queste storie sono collettive e sistemiche. Ricordiamocene quando, commossi, condivideremo le prossime immagini.

Pubblicato il

10.09.2015 15:34
Pablo Guscetti