La sfida di Sanders: riuscire a contare

Le campagne elettorali Usa sono momenti speciali. Specie se il risultato non è scontato o se, per qualche ragione l'attenzione alla politica si accende. Il 2016 verrà ricordato per risultati scontati che non lo furono, la vittoria di Hillary Clinton e quella di Jeb Bush, e per candidati che a sorpresa ottengono risultati che chiunque considerava fuori dalla loro portata. Il trionfo di Donald Trump e il clamoroso risultato di Bernie Sanders sono due sorprese enormi per chiunque si occupi di politica americana.

 

Ma hanno le loro fondamenta negli ultimi 15 anni: le divisioni create dalla presidenza Bush, la vittoria di Obama alle primarie del 2008 contro Clinton, la rivolta del Tea Party nel 2010 e il progressivo risentimento anti-Washington cresciuto nel partito che fu di Reagan. La politica Usa ha assistito a una serie di rivolte anti-Washington, spesso caratterizzate da toni populisti. Il 2016 è l'apice.


È in questo contesto che va letta la cavalcata di Bernie Sanders: risentimento contro Washintgon, delusione per come vanno le cose e voglia di cambiarle in maniera radicale. Specie da parte di una generazione cresciuta alla politica dopo l'elezione di Obama e la devastante crisi economica che ha portato a galla le diseguaglianze crescenti, la ricchezza spropositata di pochi, lo strapotere della finanza e la mancanza di regole per le banche. Tutte questioni di cui la gente ha preso atto con il 2008 e poi con Occupy Wall Street.


E in questi anni campagne, movimenti, organizzazioni sindacali (la Seiu, il sindacato dei servizi, in testa) hanno lavorato con successo per cambiare le cose. La mobilitazione per il salario minimo a 15 dollari, gli scioperi nei fast food per il riconoscimento di alcuni diritti minimi (malattia, ferie, maternità) sono movimenti che durano e hanno avuto diversi successi (molti Stati hanno approvato il salario minimo orario e Obama stesso ha proposto di alzare quello federale).


Sanders ha incarnato quella spinta, ha saputo parlare in maniera chiara delle diseguaglianze e ha ricordato come gli anni d'oro degli Stati Uniti sono quelli in cui queste erano molto ridotte. Non era il socialismo, ma una società più giusta, capace di lasciare indietro meno fasce della popolazione. I giovani quindi, più radicali per natura, in parte in cerca di una figura “alla Obama” nel senso di capacità di produrre un messaggio che dicesse "se ti impegni in politica cambieremo le cose", sono accorsi a frotte.


Non solo voto giovanile
Ma il successo di Sanders non si spiega solo con il voto giovanile. Anzi. Se guardiamo alla mappa degli Stati vinti da Bernie scopriamo che molti sono luoghi un po' decadenti, molto bianchi e spesso popolati da una popolazione non particolarmente giovane. Se guardiamo alle aree geografiche interne agli Stati dove Sanders ha vinto, scopriamo che sono quelle più rurali e isolate e non le metropoli.
Questa differenza geografica nella mappa dei consensi per Clinton e Sanders si ripete spesso: in Michigan Hillary ha vinto grazie al voto di Detroit e dintorni e in Massachusetts, in una contesa in cui si è imposta con solo lo 0,3% del totale dei consensi, grazie a quello di Boston. Le città, insomma, hanno votato per Clinton. Certo, nei centri urbani vivono le minoranze, che hanno scelto Clinton.
La lunghezza delle primarie ha poi reso forte la voce di alcuni Stati dove il voto per nominare i candidati arriva a giochi fatti e poca gente partecipa. Stavolta c'è stata mobilitazione fino alla fine e abbiamo quindi ascoltato la voce di persone che normalmente non si prendono la briga di andare ai seggi ad esprimere una preferenza inutile.
Il 2016 ci ha fatto ascoltare l'opinione degli angoli nascosti del Paese; che si tratti di contee un po' isolate o di “suburbia”. Una parte del successo di Sanders viene proprio da qui: c'è un elettore mediamente bianco e mediamente non giovane che si sente lontano dai processi decisionali e dalla ripresa lenta e faticosa del mercato del lavoro. Questi elettori non sono stati toccati dalla ripresa dell’economia e, negli anni della crisi, hanno visto crollare il prezzo delle proprie case e il valore dei propri 401K, le pensioni integrative. A seconda dello Stato di residenza, della tradizione politica di appartenenza, della propria professione e orientamento ideologico, costoro hanno scelto Sanders o Trump, come i bianchi conservatori e laburisti che hanno votato per il Brexit.
Gli operai ed ex operai della Rust Belt, la cintura della ruggine, quella che era il cuore pulsante d'America, fatta di lavoratori mediamente bianchi, di company town in Ohio, Wisconsin, Michigan, Indiana, simili culturalmente al Vermont di Sanders e popolati da persone simili a Sanders (immigrazione antica irlandese, tedesca, polacca, italiana, ebrea), hanno visto in Sanders una risposta alla propria delusione e la propria voglia di speranza. Quelli alla ricerca di un capro espiatorio hanno scelto Trump.


Le sue idee alla Convention
È adesso che Clinton è la nominee che succede? Che farà Bernie, oltre a votare per Hillary come ha detto in Tv con grande cautela, e «fare di tutto per impedire che un repubblicano vada alla Casa Bianca», come ha detto in un videomessaggio visto da centinaia di migliaia di persone in pochi giorni? Il primo passo è aprire una trattativa con la campagna della ex senatrice di New York sulla piattaforma elettorale democratica. Portare alla convention di Philadelphia di fine luglio le proprie idee e farle sentire all'America in prime time televisivo (si contratta anche su chi parla quando): riforma di Wall Street, una qualche forma di strumento che renda meno tragico andare al college dal punto di vista dei debiti che gli studenti contraggono, il salario minimo a 15 dollari. E poi cambiare le regole di funzionamento della nomination, renderle più democratiche.


Ma per ottenere risultati durante una presidenza Clinton che oggi appare davvero probabile, Sanders ha bisogno di tenere assieme la sua base. MOveOn.org, organizzazione progressista che raccoglie fondi, firme e mobilita online, è al lavoro per sostenere Sanders in questo sforzo. Nel messaggio di venti minuti registrato per dire «stiamo ancora assieme, pressiamo Hillary ma vediamo di farla vincere», Sanders ha concluso «La mia speranza è che quando gli storici del futuro guarderanno indietro e descriveranno come il nostro Paese si è spostato in avanti e ha invertito la deriva verso l'oligarchia, questi noteranno che lo sforzo è incominciato con la rivoluzione politica del 2016». Una spinta che trascende l'appeal di Sanders e che covava nelle delusioni e nelle aspirazioni di molti a cui il mondo non piace abbastanza così com'è e che, a differenza degli elettori di Trump, si rendono conto che non si torna a un passato che non c'è più.
Le campagne elettorali sono speciali anche per un altro motivo: possono generare grande entusiasmo e partecipazione. Nel 2008 Obama mise in moto una macchina formidabile ed era abbastanza certo di riuscire a mantenerla in moto anche una volta giunto alla Casa Bianca. Così non è stato: Organizing for America fa ancora cose, riesce a organizzare mail bombings, volontari che registrano al voto, ha una grande banca dati indispensabile a chi voglia vincere un'elezione oggi in America, ma ha smesso di essere un veicolo della partecipazione.


Alleato o spina nel fianco
La sfida per Sanders è quella di riuscire dove Obama non è riuscito. Dalla sua ha il fatto di non avere vinto: Bernie non entrerà alla Casa Bianca e, quindi, non verrà messo alla dura prova della realtà, non dovrà fare compromessi, non dovrà produrre risultati. Potrà però incarnare – lui e una serie di figure della sinistra del partito democratico, da Elizabeth Warren al senatore dell'Ohio Sherrod Brown – la voce di chi vuole cambiare e organizzarla. Se gli americani avranno ancora voglia di cambiamento, Sanders potrà essere un alleato importante di Clinton – se questa dovesse decidere di rispondere ad alcune delle domande poste dalla base democratica – se invece Hillary sbattesse la porta, beh, allora Sanders sarà una spina nel fianco.

Pubblicato il

29.06.2016 23:29
Martino Mazzonis
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