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La settimana corta allunga la vita

Unia chiede una drastica riduzione del tempo di lavoro in Svizzera. «Una misura che tutela la salute e migliora il benessere», spiega la psicologa

Molti sono oramai i Paesi che stanno passando a un orario lavorativo settimanale più breve, con benefici su vari fronti. Anche in Svizzera qualcosa si muove, ma per uno dei Paesi con la media oraria più alta d’Europa il cambio di mentalità sarà tutt’altro che facile. Ne abbiamo discusso con Eleonora Fontana, psicologa e psicoterapeuta del Laboratorio di psicopatologia del lavoro di Lugano.

 

L’orario settimanale di lavoro sta sempre più diventando oggetto di cambiamenti in Europa e nel mondo: ci si è resi conto che, studi alla mano, lavorare troppo in realtà nuoce all’economia, oltre che alla salute. Così molti Paesi hanno introdotto o stanno introducendo settimane lavorative più corte. La Svizzera non è però al passo con i tempi, almeno per ora, e con una media di 41,7 ore a settimana per un tempo pieno è uno degli Stati europei con il grado d’occupazione più alto, con conseguenze importanti sulla salute delle lavoratrici e dei lavoratori, chiamati a una sempre crescente flessibilità e con ritmi di lavoro in costante aumento.

 

Anche qui però c’è chi chiede di cambiare le cose: riunitasi due settimane fa, l’Assemblea dei delegati (Ad) di Unia ha infatti approvato una risoluzione che chiede una drastica riduzione del tempo di lavoro con piena compensazione del salario per i redditi medio-bassi. Dall’ultima indagine sullo stress percepito sul lavoro in Svizzera (Job Stress Index), è infatti emerso che tre lavoratori su dieci soffrono di stress e che tra i giovani la situazione è particolarmente allarmante con il 42% che presenta livelli critici di stress e un altro 42% che ha comunque già raggiunto livelli sensibili.

 

Una situazione riscontrata anche dal Laboratorio di psicopatologia del lavoro ticinese, come spiega Eleonora Fontana, psicologa e psicoterapeuta: «Siamo spesso confrontati con utenti che si rivolgono a noi perché particolarmente stressati sul posto di lavoro, anche oltre la soglia del burnout. Spesso oltre ai sintomi ansioso-depressivi, le conseguenze sulla salute si manifestano con dolori cronici, insonnia, difficoltà di concentrazione e memoria. Altre conseguenze possono essere le ripetute assenze dal lavoro per malattia, la perdita di motivazione e interesse». Oltre al lavoro sulla singola persona, per la psicologa è importante spostare progressivamente il focus sulla prevenzione: «Ecco perché riflessioni come quella di poter ridurre le ore di lavoro settimanale, a parità di stipendio, cominciano a prendere maggiore spazio e ad aprire scenari interessanti – spiega –. D’altronde ci sono diversi studi in Islanda, Giappone e Nuova Zelanda, che hanno dimostrato come una riduzione delle ore lavorative settimanali permetta di apportare miglioramenti sul piano della salute e del benessere, senza compromettere la produttività, o talvolta addirittura aumentandola».

Perciò, secondo Fontana, quello che di primo acchito sembra un beneficio per il lavoratore, lo è in realtà anche per il datore di lavoro: d’altronde è risaputo che un collaboratore più sereno è anche un collaboratore più motivato e che resterà più facilmente fedele all’azienda. «Questo comporta per l’azienda un guadagno anche nell’ottica di minori costi legati alle assenze per malattia o alla ricerca di nuovo personale».

 

Un orario di lavoro molto lungo, come quello che abbiamo in Svizzera, costringe chi ha obblighi di cura verso figli o parenti bisognosi a lavorare a tempo parziale. Questo è un problema che riguarda sei donne su dieci (contro 1,8 uomini su dieci), le quali per poter svolgere tutto quel lavoro non retribuito e invisibile che incombe ancora in grandissima parte sulle loro spalle, non hanno altra scelta che il tempo parziale. Questo però, come hanno sottolineato anche i delegati di Unia, ha delle conseguenze: riduce il salario e quindi anche le rendite Avs, oltre a precludere buona parte delle opportunità di carriera e perfezionamento. Una situazione che spinge molte donne in situazioni di precarietà.


Oltre alla salute, all’economia e all’equilibrio tra vita lavorativa e vita privata, a trarre beneficio da un orario settimanale più breve da passare sul posto di lavoro ci sarebbe anche l’ambiente. C’è infatti un nesso tra i lunghi orari di lavoro e le elevate emissioni di gas serra.

Quale sarebbe quindi il numero di ore settimanali “ideale”? «Non penso che esista un numero di ore settimanali “ideale”, credo che l’ideale si collochi nel poter organizzare la propria settimana riuscendo a far fronte alla mole di lavoro, senza però sacrificare il tempo libero e la vita privata. Sarebbe naturalmente interessante immaginare una riduzione delle ore lavorative settimanali, a parità di stipendio, ma rimane fondamentale essere in grado di gestire bene la separazione tra lavoro e vita privata», conclude Eleonora Fontana.

 

Secondo Unia, con una drastica riduzione del tempo di lavoro con piena compensazione dei salari medio-bassi, gli aumenti di produttività che oggi finiscono nelle tasche degli imprenditori verranno finalmente restituiti a coloro che li hanno generati; le malattie professionali diminuiranno; le donne saranno liberate dalla trappola del lavoro a tempo parziale e l’ambiente e il clima ne trarranno giovamento. Nella risoluzione si sottolinea anche come sia comprovato che le persone consacrano il tempo libero guadagnato dapprima al loro entourage e alla cura di sé stessi, cosa che riflette in quale misura questi aspetti siano oggi trascurati con una settimana lavorativa media di quasi 42 ore.

Pubblicato il

15.12.2021 11:22
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