La scoperta della precarietà

Ginevra, 3 maggio 2020. Migliaia di persone in un’ordinata fila lunga un chilometro, attendono di ricevere un sacchetto contenente pasta, riso, olio, scatolame e prodotti freschi per un valore di venti franchi. Un’immagine simbolo che ha svelato la precarietà diffusa nella ricca città internazionale lemanica. Uno scenario pressoché identico si è ripetuto nei grandi centri urbani del Paese. E in Ticino, dove nel 2018, il 30.4% della popolazione (quasi un’economia domestica su tre), non era in grado di far fronte a 2’500 franchi di spesa imprevista, come ha colpito la crisi da Coronavirus?  area è andata lo scorso giovedì al magazzino del padiglione Conza di Lugano, dove l’associazione Amici della vita distribuisce settimanalmente cibo, vestiti, giocattoli e oggetti casalinghi alle persone.

Dopo il blocco allo scoppio della pandemia, l’associazione ha ripreso la distribuzione il 25 marzo, andando a colmare un vuoto che si era creato con la sospensione di altre associazioni attive nel medesimo campo. «Da quel primo giorno, è stato un crescendo di utenti» spiega Klaus Stocker, presidente dell’associazione. «Dai 193 iniziali, la scorsa settimana siamo arrivati a 260». L’associazione, grazie all’aiuto di una trentina di volontari e personale della città di Lugano inattivo a causa della pandemia, raccoglie il cibo offerto dai grandi magazzini o direttamente da agricoltori, per distribuirlo alle persone in cambio di un franco simbolico. Con un’esperienza trentennale alle spalle, Stocker osserva come la tipologia d’utenza si sia modificata col prolungarsi della pandemia. «Vi sono molte persone che prima avevano un lavoro, magari saltuario, che oggi si trovano senza reddito e sono in estrema difficoltà». È il caso di Ivan*, che aspettando in fila, spiega che prima della crisi, dava dei corsi privati a studenti o adulti. «In un mese, il mio reddito è calato di 2mila franchi. Già non guadagnavo molto, ma stavo a galla. Ora invece, faccio molta fatica ad avere abbastanza da mangiare».

Uno dei problemi principali di questa fase, è che le entrate non ci sono, mentre i costi fissi sono rimasti. È l’esempio di Anna*: «Mio marito lavora da indipendente. Con l’indennità perdita di guadagno, ha ricevuto 200 franchi per il mese di aprile (ora la misura è stata rivista al rialzo, ma i soldi non arriveranno prima di giugno, ndr.). L’immobiliare che gestisce l’appartamento dove viviamo coi nostri tre figli, non ha voluto sentire ragioni. “O pagate subito i 1’500 franchi o vi diamo la disdetta”. E così, non abbiamo soldi per mangiare». Da quanto tempo abitate in quell’appartamento, le chiediamo. «15 anni. Mai un ritardo nel pagamento» risponde amareggiata, per usare un eufemismo. Gianni* invece lavorava nella ristorazione, a tempo parziale non per sua scelta. La riduzione del già misero salario all’80% indennizzato del lavoro ridotto, gli ha compromesso quel delicato equilibrio finanziario con cui viveva in precedenza.

Maria* invece faceva le pulizie nelle case. È l’entrata extra del reddito famigliare, poiché il marito, finita la disoccupazione dopo esser stato licenziato superati i cinquant’anni, oggi si ritrova in assistenza. «Quei soldi delle pulizie, ci consentivano di arrivare con meno ansia a fine mese. Mia figlia è apprendista, mentre l’altra sta studiando. Sono giorni molto difficili. È un mese che vengo a prendere il cibo». «I bambini sono belli, ma sono cari» aggiunge, ridendo, una sua amica in colonna. «Io ne ho tre a casa. Per fortuna uno è ancora piccolo, perché più crescono, più mangiano» dice sorridendo, mentre riceve dal volontario una confezione di pappe per bebè.

Giorni difficili anche per il cinquantenne Carlo*, venditore a tempo parziale, licenziato durante la pandemia. «Anche qual’ora l’attività sarebbe ripresa, il mio datore ha ritenuto che gli introiti sarebbero calati. Inoltre, non essendoci spazio sufficiente per la distanza sociale nel negozio, non poteva tenere tutti i dipendenti». In attesa che le pratiche burocratiche della disoccupazione siano espletate e arrivi la prima indennità, deve tirare la cinghia. «Il servizio di questa associazione è per me di grande aiuto. Direi di più, vitale».

Non poteva mancare il lavoratore interinale, lasciato prontamente a casa appena arrivato il blocco, senza che la sua agenzia abbia fatto ricorso al lavoro ridotto, nella procedura estesa voluta dal Consiglio federale «per non lasciare solo nessuno».

Alcune delle persone incontrate, le difficoltà finanziarie le vivevano già prima della pandemia. Molti hanno statuti precari, essendio richiedenti l’asilo a cui è proibito lavorare per legge. Un divieto che può durare anni, fino al termine della procedura. Vi sono poi persone la cui invalidità è stata riconosciuta solo parzialmente, e percependo un’indennità molto bassa pur non trovando alcun datore disposto ad assumerli, vivono già con bassi redditi. Il loro problema attuale, sono le frontiere chiuse. «Andare a far la spesa in Italia era la mia ancora di salvezza. Ora, mi tocca venire qua a prender del cibo» racconta Giulia*.

In coda alla distribuzione del cibo organizzata dagli Amici della vita, vi è una moltitudine umana, ognuna con la propria storia, ma uguale nella condizione esistenziale: la precarietà. Il virus li ha spinti giù da quel sottile filo sul quale si reggevano in equilibrio precario. E la rete sociale cantonale si è rilevata incapace di sostenerli. Loro sono solo uno spaccato di una realtà difficile da scovare, ma ben presente. Le dichiarazioni pubbliche di altre associazioni attive nella distribuzione del cibo, come la Fondazione Francesco di Fra Martino, confermano la crescita di una problema a cui urgono delle risposte. Perché, per quanto ammirevole, la carità non può essere la soluzione di uno Stato civile.

*nomi di fantasia

Pubblicato il

20.05.2020 14:30
Francesco Bonsaver