Torino - La morte delle 392 persone ammazzate dall’amianto della Eternit di Casale Monferrato, al centro del processo d’appello contro il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny in corso a Torino, è da ricondurre alla condotta dell’imputato, che ha controllato Eternit Italia tra il 1976 e il 1986? E quei decessi sono proprio dovuti al mesotelioma, il tipico cancro provocato dalle polveri di asbesto che colpisce la pleura? Oltre a dover valutare l’elemento soggettivo della colpa (Schmidheiny quanto era consapevole della pericolosità dell’amianto? Con quale grado di intenzionalità ha agito?), la Corte è chiamata a rispondere anche a queste due centrali domande. E per farlo ha ritenuto necessario interrompere la discussione tra le parti per approfondire alcuni aspetti medico-scientifici con i consulenti tecnici di accusa e difesa, protagonisti delle ultime udienze del processo che dovrebbe concludersi e giungere a sentenza in aprile. Una sentenza che dovrà stabilire se Stephan Schmidheiny è innocente e dunque va assolto (come sostengono i suoi legali) oppure se è colpevole di omicidio colposo come stabilito dalla sentenza del giugno 2023 della Corte d’Assise di Novara (che gli ha inflitto 12 anni di reclusione) oppure di omicidio intenzionale e va condannato all’ergastolo, come insiste la pubblica accusa. È pacifico che quelle 392 persone (e dopo di loro molte altre) del Monferrato Casalese siano morte di mesotelioma e a causa dell’amianto disperso negli ambienti di vita e di lavoro dall’attività industriale dell’Eternit, ma la giustizia penale esige un rigoroso accertamento dei fatti e delle responsabilità individuali, in questo caso di Stephan Schmidheiny. Uno degli elementi centrali è il cosiddetto “nesso di causalità” tra la condotta dell’imputato e l’evento morte di quelle 392 persone (tra ex operai e semplici cittadini). «Deve essere dimostrato con certezza processuale che ogni singolo decesso è conseguenza delle azioni di Schmidheiny», ha affermato l’avvocato Guido Carlo Alleva durante l’arringa difensiva. «Se immaginassimo come non avvenute quelle azioni (cioè se immaginassimo che l’imputato non le ha compiute) dovremmo dire con il crisma della certezza che anche le morti non si sarebbero verificate», ha esemplificato. Si tratterebbe insomma di dimostrare «oltre ogni ragionevole dubbio» che il danno, cioè la malattia che ha portato alla morte, si è prodotto durante il cosiddetto periodo di garanzia dell’imputato (tra il 1976 e il 1986) e che la sua condotta sia stata determinante. Una delle questioni da chiarire è se Schmidheiny può essere chiamato a rispondere anche per i decessi di lavoratori e cittadini che avevano per esempio subito un’esposizione all’amianto anche prima della sua gestione oppure no. La domanda, per esemplificare al massimo è: se due persone A e B, in successione, somministrano del veleno a C che poi muore, significa che B è innocente perché la vittima aveva già ricevuto una prima dose? E dunque, nel nostro caso: per l’insorgere del mesotelioma è rilevante solo la prima esposizione oppure anche tutte quelle successive? È stato proprio questo l’interrogativo che ha fatto da fil rouge all’udienza del 17 febbraio scorso in cui si sono confrontati il consulente tecnico dell’accusa e quello della difesa, sostenitori di due teorie scientifiche contrapposte.
Più se ne respira prima si muore È toccato dapprima a Corrado Magnani, professore di statistica medica ed epidemiologo di riconosciuta autorevolezza a livello internazionale, illustrare la teoria sulla cancerogenesi del mesotelioma più avallata nel contesto scientifico mondiale: quella, detta “multistadio”, secondo cui tutti i periodi di esposizione all’amianto incidono. «Più amianto si respira, più aumenta il rischio di ammalarsi di mesotelioma e prima si muore», ha spiegato lo scienziato torinese rispondendo, cifre alla mano, alle domande della presidente della Corte Cristina Domaneschi. Cifre che poggiano per esempio su un innovativo studio epidemiologico (di cui Magnani è coautore) pubblicato nel 2022, condotto su circa 50mila lavoratori di 43 aziende italiane in cui si faceva uso di amianto (tra cui la Eternit di Casale): esso mostra come la frequenza di mesotelioma sia superiore e raggiunga prima certi valori nel gruppo dei maggiormente esposti (perché sono stati in fabbrica per più tempo o hanno subito un’esposizione più intensa o entrambe le cose) e che questi muoiono con anticipazione, perdono cioè 15-20 anni di vita rispetto alla popolazione generale. Mentre «senza esposizione all’amianto non ci si ammala di mesotelioma, si muore più in là nel tempo e di altre patologie. In Italia si registrano 1.400 casi di mesotelioma all’anno. Se l’amianto non ci fosse stato sarebbero 60», ha aggiunto Magnani, citando anche uno studio pubblicato nel 2024, che aiuta a farsi un’idea sul fenomeno dell’anticipazione. Studio in cui su un campione di topi è stato dapprima alterato il patrimonio genetico in modo da creare una predisposizione al mesotelioma e in seguito alla metà di essi è stato anche iniettato dell’amianto: nel gruppo che ha subito entrambi i trattamenti il 50% dei topi si è ammalato circa 90 giorni dopo l’esposizione, mentre nell’altro ciò accade 170 giorni dopo. «La somministrazione di amianto ha dunque anticipato notevolmente la malattia», ha sottolineato Magnani, spiegando anche il collegamento con la teoria multistadio: «Un tumore per svilupparsi passa attraverso varie fasi (alterazioni genetiche, replicazione cellulare sempre più veloce). E quando è scatenato da fattori esterni (come fumo o amianto), maggiori sono i quantitativi più alta sarà la velocità con cui questi fenomeni avvengono». Il mesotelioma è anche un tipo di neoplasia con una latenza lunghissima, di una durata mediana di 48 anni. 48 anni tra l’esposizione e la diagnosi, dopo la quale avanza molto in fretta: «La probabilità di sopravvivenza a un anno dalla diagnosi è del 45% nei casi diagnosticati negli anni 2020/21 (era del 35% in quelli del 1994)», ha spiegato Magnani. Ma quando inizia a svilupparsi il tumore? Secondo la scienza più accreditata vi è una “fase preliminare” della durata media di 10 anni in cui il mesotelioma c’è ma non viene riconosciuto (perché non si fanno esami o perché non esistono esami adeguati). La difesa: che conta è la prima esposizione Secondo una teoria scientifica minoritaria, sposata dalla difesa di Schmidheiny, questa fase dura invece molto più. La malattia inizia cioè a svilupparsi entro un periodo (detto “di induzione”) molto breve dopo l’inizio dell’esposizione: una volta che, attraverso un fenomeno genetico improvviso (una “catastrofe cromosomica”), si ammala la prima cellula dell’organismo, il tumore, seppur non visibile, è irrimediabilmente formato e senza possibilità di ritorno. Il che significa che ogni esposizione successiva all’amianto è «irrilevante». Applicata al caso dei 392 morti dell’Eternit di Casale Monferrato, questa teoria imporrebbe di accertare per ciascuno di loro il momento preciso in cui termina l’induzione per capire se rientra nel decennio in cui il miliardario svizzero controllava lo stabilimento e dunque può essere chiamato a risponderne, sostengono i suoi legali. E siccome non è possibile stabilirlo, non si può comprovare “oltre ogni ragionevole dubbio” il nesso di causalità. E dunque Schmidheiny va assolto, è la conclusione della difesa, secondo cui è inadeguato appoggiarsi alla scienza epidemiologica, come fanno i rappresentanti della Procura e come hanno fatto i giudici di Novara nel primo grado di giudizio. Per smontare la validità dell’epidemiologia il collegio difensivo si affida al professor Canzio Romano, specialista in medicina del lavoro con un ricco curriculum come consulente tecnico, in processi penali e civili, di decine di prominenti aziende (Alstom, Barilla, Electrolux, Fincantieri, Ilva di Taranto, Michelin, Olivetti, Montedison solo per citarne alcune). Pure lui è stato interrogato dalla presidente della Corte nel corso dell’ultima udienza. Il consulente dell’Eternit: l’epidemiologia non si può applicare al caso singolo «Il mesotelioma è un’affezione caratterizzata da ampie zone d’ombra – ha esordito Romano –. Poiché è un tumore particolarmente aggressivo si dedurrebbe una sua crescita rapida, ma questa è solo una supposizione. È vero che dopo la diagnosi la sopravvivenza è breve o brevissima, ma questo potrebbe dipendere dal fatto che quando si giunge a diagnosi il tumore è già molto esteso e invasivo. Tanto che basta anche una sua piccola crescita per essere incompatibile con la sopravvivenza del soggetto». Il consulente della Eternit si è anche addentrato nel concetto di anticipazione della malattia illustrato da Corrado Magnani. Innanzitutto, ha detto, «bisogna distinguere tra anticipazione (un evento che sulla base di un’analisi epidemiologica si manifesta prima) e accelerazione (un fenomeno biologico che si realizza in modo più rapido). E noi abbiamo informazioni solo sull’anticipazione, che non è però possibile misurare a livello individuale». «L’epidemiologia – ha argomentato – fornisce risultati statistici che non per forza corrispondono alla realtà e che non possono essere applicati al singolo individuo, ma solo a un’astratta popolazione simile al campione dello studio. Essa non spiega il singolo evento, che è determinato da molti fattori di individualità». Per l’individuo questa scienza avrebbe come unico valore quello di dare indicazioni per l’elaborazione di politiche sanitarie e di norme, ha affermato Romano. E ancora: «Non abbiamo bisogno dell’epidemiologia per stabilire il legame tra amianto e mesotelioma. Qui dobbiamo capire come quel fattore ha agito sul singolo individuo, individuare aspetti quantitativi e qualitativi che si possono considerare al di là di ogni ragionevole dubbio». O detto in altro modo: «Dobbiamo stabilire se la persona si sarebbe ammalata dopo o non si sarebbe ammalata se non ci fosse stata la Eternit tra il 1976 e il 1986». Il professor Romano ha infine anche contestato la questione dell’anticipazione dell’età di morte: «È così per tutte le malattie tumorali e non solo. E poi tra i deceduti di mesotelioma di Casale l’età della morte non è significativamente inferiore a quella dei morti di mesotelioma di tutto il Piemonte. Sostenere che tutti i casi sono anticipati e che l’anticipazione è uguale per tutti, non ha sostegno biologico e nemmeno epidemiologico». La questione delle diagnosi Toccherà alla Corte, in sede di decisione della sentenza, valutare le tesi dei consulenti di accusa e difesa. E la questione del nesso di causalità non è l’unica ad avere implicazioni di carattere tecnico-scientifico di centrale importanza nell’economia del processo Eternit. Poiché nel capo d’accusa «il decesso è attribuito al mesotelioma, c’è anche il problema delle diagnosi», ha ricordato durante l’arringa l’avvocato Alleva. «Senza voler fare il processo ai medici che hanno svolto al meglio la loro professione con le conoscenze dell’epoca, oggi dobbiamo essere certi che a provocare quelle morti sia stato il mesotelioma», una malattia «che ha l’attitudine a essere confondibile con altri tumori», ha sostenuto. E per avere la certezza diagnostica assoluta, «bisogna usare gli strumenti di cui disponiamo oggi». In particolare i più moderni marcatori dell’immunoistochimica che utilizza l’anatomopatologo. Dunque, a giudizio della difesa, non potrebbero essere considerate certe le diagnosi fatte a suo tempo dai medici. Diagnosi «che erano frutto di un accurato approccio multidisciplinare cui partecipavano l’oncologo, il radiologo, l’anatomopatologo, il chirurgo toracico e altri specialisti tenendo conto di tutti gli esami disponibili (lastre, vetrini, biopsia)» e che avevano lo scopo «di formulare una diagnosi precisa a fini terapeutici», ribatte il legale di parte civile Giacomo Mattalia, stigmatizzando il fatto che quelle diagnosi, «ritenute validissime per curare una persona, oggi vengano messe in discussione in tribunale». “Ma di cosa saranno morti i nostri cari?” si chiedono invece i familiari delle vittime che purtroppo non possono avere dubbi sulla certezza di quelle diagnosi di mesotelioma avendo vissuto in prima persona il tragico percorso che questa terribile malattia comporta. Ma sarà la Corte d’appello a stabilire se questa è la verità anche giudiziaria. |