Colombia

Se ce n’è una, la Colombia, con i Gabriel García Márquez e gli Álvaro Mutis, è la terra favolosa del realismo magico. Ma, ora, di magico non ha più nulla e resta solo la tragica realtà di un paese in fiamme che (finalmente) si ribella, dice basta e, di fronte, trova solo la repressione selvaggia.

 

Tutto, in apparenza, è cominciato un mese fa, un 28 aprile che ha già fatto storia, quando, per la prima volta in decenni e all’unisono, operai, campesinos, indigeni, donne, studenti sono scesi in piazza contro una riforma fiscale iniqua, presentata dal presidente, l’ultra-destro Iván Duque, e hanno proclamato un “paro nacional indefinido”.


La riforma fiscale, beffardamente chiamata “Ley de Solidaridad Sostenible”, era un trucco per far pagare i costi sociali della pandemia, che anche in Colombia ha fatto strage, ai ceti più poveri. È stata solo la miccia.
In un anno di pandemia la Colombia è passata dal 35,7% di povertà al 42,5% (dati ufficiali). Di più: per la Banca Mondiale, la Colombia è il secondo paese più disuguale dell’America Latina e il settimo più disuguale del mondo.


La risposta alla gigantesca mobilitazione sociale, per la maggior parte pacifica, è stata la stessa: criminale quella della polizia, apparentemente ottusa quella di Duque. Una cinquantina di morti, violenze efferate (e documentate), stupri, centinaia di arresti. Proteste e appelli contro gli eccessi da Usa, Ue, Onu, perfino Osa, tutti molto moderati e sottovoce per carità: la Colombia è pur sempre il miglior alleato di Washington in America Latina, è formalmente una democrazia, un modello economico un po’ oligarchico ma storicamente stabile, ha un trattato di libero scambio con la Ue.


Duque ha prima militarizzato il paese, poi ha accettato di avviare un dialogo con il Comité nacional de paro. Ma finora gli incontri non hanno sortito effetti. Troppo grande è la distanza fra domanda e offerta. La protesta chiede azioni concrete sulle scandalose diseguaglianze; sulla riforma della polizia assassina; sul sabotaggio scientifico da parte di Duque degli accordi di pace con le Farc del 2016; sul massacro incessante e impunito di leader sindacali e indigeni, attivisti per i diritti umani, donne, ex guerriglieri smobilitati (200 morti nel 2020, il 60% in più del 2019); sulla politica ambientale (è ripreso l’uso del glifosato in funzione anti-droga). Duque si ostina invece a chiedere la fine della “violenza” e del “terrorismo”, militarizza il paese mentre riappare il fantasma della guerra civile e del paramilitarismo, al massimo offre... un semestre gratis per i giovani che si vogliono iscrivere all’università.


È evidente che dietro a Duque si muove il perverso Álvaro Uribe. L’ex presidente gli intima di usare l’esercito per restaurare l’ordine pubblico, di ordinare alla polizia di sparare a vista, richiama la Revolución molecolar disipada, quella teoria complottista elaborata da un entomologo neonazi cileno che partendo dagli insetti arriva a fare dei manifestanti un obiettivo militare.


Duque segue il padrino sulla via complottista e accusa Gustavo Petro, ex sindaco di Bogotá e ora senatore, leader del moderato partito socialdemocratico Colombia Humana, di essere dietro il “levantamiento” popolare. Petro, battuto da Duque nel ballottaggio del 2018, è avanti nei sondaggi in vista delle presidenziali del maggio 2022.


È difficile dire cosa succederà in Colombia. Duque potrebbe continuare con il falso dialogo, magari alternando la repressione con qualche “pannicello caldo”, nella speranza che la mobilitazione e la protesta si sgonfino. Oppure l’obiettivo politico dell’estrema destra, di Uribe come di Duque, potrebbe essere quello di arrivare al voto in un contesto di violenza fuori controllo per ritornare alla “politica de seguridad democratica” uribista.
Per ora l’unica certezza è che quel 28 aprile ha fatto la storia. C’è da sperare che, come è accaduto in Cile negli ultimi due anni, riesca a cambiare anche la sofferta storia della Colombia.

Pubblicato il 

28.05.21
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