Disinformazione, mancanza di trasparenza e totale insensibilità nei confronti dei lavoratori e dei cittadini alle prese con la malattia o con uno stato di ansietà permanente. La situazione di incertezza e di angoscia che stanno vivendo in queste settimane i dipendenti e gli ex dipendenti delle Officine Ffs di Bellinzona e di altre realtà industriali ticinesi che in passato sono stati esposti all’amianto, non rappresenta purtroppo nulla di nuovo per la Svizzera. Un paese che storicamente ha avuto un ruolo centrale nella diffusione nel mondo di questo minerale killer (da qui è partita l’espansione della multinazionale Eternit e qui è nato il primo cartello mondiale dei produttori di cemento amianto) ma che al contempo ha sempre fatto “fatica” a fare i conti con questa tragedia, a tutti i livelli. Sul piano legislativo innanzitutto. La potentissima lobby dell’amianto è sempre riuscita ad imporre norme ad essa favorevoli: si pensi per esempio ai termini di prescrizione entro i quali una vittima può far valere delle pretese di risarcimento nei confronti del suo datore di lavoro oppure al fatto che è stata la Eternit a dettare al Consiglio federale i tempi di uscita dall’amianto (circostanza emersa nei processi in corso in Italia). Siamo poi un paese in cui non è mai stato celebrato nemmeno un processo nei confronti di presunti responsabili per la morte di lavoratori e cittadini: anche in questo caso grazie a norme e a una giurisprudenza garantiste coi padroni e poco attente agli interessi delle vittime. Per capire cosa è capitato nelle fabbriche elvetiche dobbiamo affidarci alle indagini (preziose) della magistratura italiana. E poi c’è l’ambito assicurativo: gli scivoloni comunicativi e i silenzi della Suva sui morti delle Officine di Bellinzona sono solo un ennesimo esempio di come essa sia piuttosto passiva e poco collaborativa quando si tratta di dare un contributo a chiarire le condizioni in cui si è consumata la tragedia nelle fabbriche svizzere. Basti pensare che la giustizia italiana che indaga sull’attività dell’Eternit ha dovuto attendere tre anni e una sentenza del Tribunale federale solo per ottenere i nominativi dei lavoratori italiani che avevano lavorato negli stabilimenti svizzeri della multinazionale, perché la Suva si opponeva con ogni mezzo alla loro trasmissione. Per le medesime ragioni di «riservatezza dei dati» che vengono evocate oggi per non informare i lavoratori delle Officine o non concedere interviste. Qualche interrogativo lo suscitano anche alcuni modi di fare e la prassi assai restrittiva nel riconoscere il diritto alle prestazioni: si pensi al caso di un ex operaio della Eternit di Payerne morto per un cancro broncopolmonare dopo aver lavorato in quella fabbrica per 27 anni in uno dei reparti con le più alte concentrazioni di polveri d’amianto, cui la Suva non riconosce la malattia professionale per il fatto che l’uomo era un fumatore; oppure alle difficoltà che la Suva fa alle vedove di ex operai Eternit tornati a morire in Puglia con richieste d’informazioni oggettivamente irreperibili nel tentativo di dimostrare che l’esposizione non è avvenuta durante 15 o 20 anni di fabbrica ma altrove. Per non parlare del fatto che spesso la Suva si rivolge loro in tedesco e non in italiano come dovrebbe e potrebbe. Da un ente di diritto pubblico ci si aspetterebbe una maggiore assunzione di responsabilità, più trasparenza, più sensibilità e più umanità di fronte a una tragedia come quella dell’amianto. Una tragedia oltretutto consumatasi sotto gli occhi della stessa Suva, la quale oggettivamente non può non riconoscere che, sul fronte della prevenzione, della vigilanza sulle condizioni di lavoro e della politica d’informazione ai lavoratori, qualcosa in passato non ha funzionato (per usare un eufemismo). E qualcosa continua a non funzionare, perché con certi metodi si rendono le persone vittime due volte.
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