La riscossa del lavoro che viene dall’America

Si dice spesso che quanto capita negli Stati Uniti, nel bene o nel male, dopo poco tempo ce lo troviamo in casa nostra. C’è in atto un singolare fenomeno statunitense, definito Striketober, di cui è opportuno tener conto. Prende il nome dall’ondata di scioperi (Strike) cominciata nell’ottobre scorso (october) in numerosi settori d’attività e tra i cosiddetti giganti dell’economia. Contemporaneamente un numero molto elevato di salariati ha anche abbandonato il lavoro, fed-up (stufo delle condizioni), dando luogo al fenomeno correlato, che ha preso il nome di Great Demission (o grande dimissione), tanto che molte industrie faticano ormai a trovare manodopera.


Ricorriamo a due studi che motivano e documentano questa sorta di “riscossa” perché non privi di significati anche per le nostre realtà.
Un primo studio di due economisti (Anna Stansbury e Lawrence Summers, che fu già ministro delle Finanze sotto Bill Clinton, presidente dal 1993 al 2001) attribuisce la causa del fenomeno all’«erosione del potere dei lavoratori». Sono quarant’anni, sostengono, che il sistema economico imperante ha ridotto il lavoro solo a un costo e, con il pretesto della concorrenza e della competitività globali, i salari della stragrande maggioranza dei lavoratori sono rimasti fermi. Anzi, se dalla fine degli anni Settanta al 2018 i manager delle multinazionali hanno visto crescere i loro stipendi di quasi il mille per cento, i lavoratori (maschi) delle classi minori hanno avuto nello stesso periodo una diminuzione dei salari dal 3 al 7 per cento e dell’11 per cento per quelli senza diploma.


Nel 2019 il lavoratore mediano maschio, a parità di potere d’acquisto, aveva un salario più basso rispetto al 1973. Eppure nello stesso periodo la produttività, che è anche crescita di ricchezza (più produzione per ora lavorata) è aumentata del 56 per cento: quanto a dire, quindi, che la ricchezza è andata a premiare una sola parte (capitale, Borsa, azionisti, dividendi, manager) e a spremerne un’altra.


L’altro studio è di un istituzionalista (Lawrence Mishel); ritiene che il fenomeno è «essenzialmente politico». La legge americana dà enorme potere ai datori di lavoro; l’esistenza di un sindacato rappresentativo, unico, si decide “dentro” un’azienda, ma deve essere sollecitato da almeno il 30 per cento dei salariati dello stabilimento e poi approvato dalla maggioranza con un referendum. I datori di lavoro riescono con tutti i mezzi a influenzare, senza incorrere in sanzioni, l’esito del voto (esempio tipico è stato quello recente di Amazon). Mishel spera in un cambiamento, con sanzioni finanziarie pesanti, con l’amministrazione Biden che le ha promesse e risulterebbe comunque «la più favorevole ai lavoratori dai lontani anni 30». E non è un caso che, stando a un sondaggio Gallup, il 68 per cento degli americani approva ora i sindacati, la percentuale più elevata dal 1965 (tra i 18-34 anni è addirittura del 77 per cento) come controparte necessaria.


Quale significato può quindi avere per noi questa riscossa del lavoro che si manifesta in modo così generale e corale? Un duplice significato: il lavoro non può più essere considerato solo il costo da reprimere per ottenere, con il pretesto della competitività, più profitti, più dividendi, più bonus per i manager e deve quindi a ugual diritto partecipare alla ripartizione della ricchezza creata; l’erosione continua del potere dei lavoratori si può fermare e contrastare solo con il potere contrattuale, sempre presente sul lavoro, dei sindacati (è ritorno del famoso “together”, tutti assieme, degli anni Trenta!)

Pubblicato il

02.12.2021 09:34
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