Quel primo maggio ingabbiato e senza festa e in quelle desolanti circostanze, ha espresso del lavoro tutta la polisemia. Parolona che sembra fuori posto (polisemia: coesistenza di più significati diversi o di più dimensioni e valori). Riassume bene ciò che si vuol dire. Con due esempi. Il primo: tutta la collettività si accorge che se cessa il lavoro, se non si può andare a lavorare, e vien quindi meno anche la possibilità di produrre e consumare, crolla tutto. Non è però solo questione d’economia. Il secondo: c’è voluta una catastrofe sanitaria per farci riconoscere lavori “invisibili” e tutti i valori che li accompagnano.


1) Il lavoro è fattore di produzione, ma è soprattutto attività creatrice ed emancipatrice, perno di tutti i diritti sociali. Tre dimensioni (creazione, produzione, emancipazione) emerse come non mai, l’una all’altra legate. Nell’economia imperante le abbiamo rese tra loro contradditorie e quasi incompatibili. Se il lavoro è considerato uno sforzo umano che va retribuito (e l’abbiamo ridotto a un costo), se è produttore di un valore d’uso (un bene, un servizio) che deve generare un plusvalore, un guadagno (e l’abbiamo vestito di maggior profitto o dividendo per l’azionista), è chiaro che si impone la visione del solo imprenditore. Se fosse invece pensato come attività emancipatrice che forma l’identità della persona, il suo costo o il profitto dovrebbero importare meno delle condizioni d’esercizio del lavoro e di vita del lavoratore: è la visione di quest’ultimo che ha la priorità. Se poi il lavoro è visto come un modo primordiale di accedere ai diritti sociali (diritto al lavoro, alla sicurezza sociale, alla formazione, a un tenore di vita adeguato, alla salute, all’alimentazione, all’abitazione, ai benefici della scienza e della cultura) non si può ridurlo al solo interesse di una parte. Diventa l’interesse di tutta la società se assieme vogliamo vivere o sopravvivere.


Con le due prime visioni (lavoro costo-profitto, lavoro attività emancipatrice) si giunge al compromesso salariale che è una sorta di sintesi negativa: nessuno sarà soddisfatto, ma nessuno dovrebbe primeggiare (anche se la storia dice che la lotta è sempre impari e si sa perché). La vicenda pandemica ci ha però vitalmente mostrato che se manca la terza visione (diritti sociali, protezione sociale) e se non la si associa strettamente al lavoro come coessenziale e irrinunciabile, crolla non solo l’economia, ma tutta la società.


2) Tutti a battere mani e persino le padelle per dire grazie e dimostrare riconoscenza a quelle persone (e vi prevalgono le donne) che negli ospedali o nella riabilitazione, con rischio per la propria salute, si son prese cura di chi è stato colpito dal morbo. Si è subito aggiunto, da parte sindacale, che non basta creare eroi. È tempo di ripensare l’organizzazione stessa della società e la gerarchia sociale che colloca funzioni essenziali non certo al posto che meritano nella riconoscenza e nella rimunerazione. Che occorre anche rendersi conto dell’estrema dipendenza che ci lega agli altri nei bisogni vitali. Ciò che è l’opposto del modello liberale individualista impostoci dall’economia, preoccupato solo del costo e della produttività, che significano richiesta di più lavoro e mansioni per ogni individuo, un non-senso e la morte in quel “lavoro”. È così emersa l’affermazione etica dell’importanza e della dignità del lavoro, dei valori morali del “prendersi cura” dell’altro. Che è anche il mantenimento della coesione, della sopravvivenza della società intera; senza di essa diventa impossibile.

Pubblicato il 

07.05.20
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