Quando e come raggiungeremo la ricchezza di prima? È la domanda rimasta e sa di vita o di morte. E allora diventa protagonista, anche nelle discussioni parlamentari, il mitico Pil, il prodotto interno lordo. È diventato il tampone dell’economia: ancora contagiato o finalmente immunizzato, ancora intubato o liberalizzato? Una minima percentuale in più o in meno ci dà la sentenza. Il Pil è stato equiparato a ricchezza nazionale o perlomeno alla ricchezza che si aggiunge in un determinato periodo di tempo (trimestre, anno), calcolando, a prezzi di mercato, tutti i beni e i servizi finali prodotti (prodotto) sul territorio del paese (interno), senza tener conto del naturale deprezzamento del capitale fisico (macchine ecc., e perciò lordo). Tanto che, divisa la somma totale dei vari componenti (o il valore aggregato, 720 miliardi di franchi lo scorso anno), per il numero di abitanti, si ottiene il Pil a testa d’abitante, indicatore che fa della Svizzera nella classifica del Fondo Monetario Internazionale il terzo paese al mondo “più ricco”, dopo Lussemburgo e Liechtenstein. Poiché un noto economista, Jan Tinbergen, Nobel per l’economia, in un suo famoso testo intitolato “Politica economica e optimum sociale” (1972) sostenne che la ricchezza nazionale lorda (Pil) è uguale alla felicità nazionale lorda (Fil), tutti hanno voluto crederci. Semplice: la ricchezza la desiderano tutti, è il desiderio per antonomasia; la ricchezza è espressa dal prodotto nazionale lordo (o il Pil pro capite); non può quindi non essere uguale, in più o in meno, al grado di felicità che c’è in una nazione. Ed è così che gli svizzeri sono anche tra i più felici cittadini del mondo. Ora ci si dice che il Pil corroso dal terribile virus è calato del 3 per cento, il più forte calo dal 1975 (crisi del petrolio). Siamo quindi meno felici. Torneremo a esserlo come prima? Oggi sembrerebbe che nessuno ha più voglia di credere a queste equazioni, divenute miti o identità nazionali (è comunque sempre così che si dice che la Svizzera se l’è cavata meglio degli altri). Le critiche al calcolo del Pil si sono moltiplicate e rendono problematica la pretesa ch’esso rappresenti la giusta misura della ricchezza prodotta (o aggiunta) in una comunità. Ma, situazione assurda, nessuno sembra disposto a rinunciarvi. A qualcuno torna comodo. Limitiamoci ad un esempio di grande attualità. Il Pil non considera ricchezza ciò che è prodotto “gratuitamente”, ciò che non è monetizzato dal mercato. Esclude così il valore della produzione domestica o dell’educazione dei figli di un universo di donne. Anche se è stato valutato a oltre 290 miliardi di franchi. A questo paradosso si aggiunge l’acrimonia, ancor più dell’ingiustizia, con cui si finisce per punire le donne che lavorano anche fuori casa (disparità salariali, pensionistiche, recupero della “parità”... per sanare l’Avs). Il Pil esclude anche il volontariato, che tiene in vita solidarietà, rapporti sociali e anche felicità, valutato in 115 miliardi di franchi. Messi insieme, anche solo monetariamente, così come alcuni istituti hanno voluto considerarli con un calcolo di mercato, (supponendo una retribuzione minima per le casalinghe o per i volontari) fanno più della metà della ricchezza nazionale ufficiale. Ricchezza ignorata, nonostante sia quella che più di altre serve a intessere la società, a costruire solidarietà, a salvare la felicità (come si è dimostrato con la pandemia). Forse perché i due valori sono “solo” umani. E allora, la ricchezza che cos’è?
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