Si fa un gran discutere, di questi tempi, della guerra in Iraq: delle sue motivazioni politiche, delle implicazioni strategiche, delle sue giustificazioni morali e delle conseguenze umanitarie. Lo scontro armato tra americani e inglesi, da una parte, e iracheni, dall’altra, è stato cinicamente preparato da un balletto di menzogne e ricatti incrociati. Chi ha voluto la guerra, costi quel che costi, l’ha avuta. E intanto l’opinione pubblica internazionale assiste sbigottita e impotente alla catastrofe annunciata. A nulla sono valse le oceaniche (perlomeno per gli organizzatori, ma in questi casi le autorità locali tendono volentieri a sminuirne la portata) manifestazioni di protesta contro l’invasione dell’Iraq. Gli appelli al dialogo sono caduti nel vuoto. E il cristiano George W. Bush si è fatto pure beffe del Papa e dei suoi inviati di pace. Persino l’Onu e il suo compito di mediazione hanno subito un pesante smacco dal decisionismo unilaterale statunitense. In sostanza, l’intera umanità si trova in un profondo vicolo cieco. È innegabile che abbiamo a che fare con una grave crisi della civiltà occidentale. Ci sembra pertanto necessario interrogarci sui contenuti di quella che l’Amministrazione americana definisce con insistenza «la crociata dell’asse del bene contro l’asse del male». Questo genere di linguaggio è chiaramente religioso, messianico e apocalittico. Diciamolo senza tardare: a noi europei risulta difficile concepire che la giustificazione etica della lotta senza quartiere di Bush “il buono” contro “il cattivo” Hussein possa avere anche un fondamento religioso. Facciamo pure fatica ad ammettere che la religione possa ricevere un posto determinante nell’arena politica. Secoli di razionalismo ci hanno insegnato a separare il trono dall’altare, il potere temporale da quello spirituale. Non è così per gli americani. Stando a diversi osservatori della società statunitense, negli ultimi dieci anni si è assistito a un ritorno del discorso religioso sul palcoscenico sociale. Secondo il giornalista italiano Massimo Giuliani, «il vero tabù negli Stati Uniti (di un’America che non ha mai smesso di essere puritana) non è il sesso ma la religione». Perciò fino a un decennio fa, era bandita dalla vita pubblica. Ora invece, aggiunge Giuliani, è «come se, con la fine della guerra fredda, si fosse scongelato anche il timore di mostrarsi spiritualmente deboli e dunque bisognosi di assistenza divina». Una recente inchiesta di James Harding per il Financial Times conferma tale tendenza, accentuatasi con l’entrata in scena di Bush-Junior. Questi, già in campagna elettorale, ripeteva che «il filosofo politico più importante della sua vita era Gesù Cristo». Il giudizio di Harding sugli elettori è sibillino: «gli americani votano quasi sempre come pregano». Chissà per cosa stanno pregando adesso?

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11.04.03

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