Viviamo in un’economia del ricatto o dove la tentazione del ricatto è diventata sistema. Il ricatto è metodo mafioso: o accetti il pizzo, o ti distruggo. Esagerazione? Non più di quel tanto. Se consideriamo vicende e fatti tutti recenti rileveremo che l’economia del ricatto si muove in quattro campi, alcuni ormai tradizionali. Nel campo delle regole. Riguarda in particolar modo il settore bancario-finanziario. Dagli anni Ottanta si era messa in atto, come rivoluzione neoliberista, la deregolamentazione, sicuri che l’autoregolamentazione o i “gentlemen’s agreement” anche in fatto di comportamenti fiscali fossero garanzia certa ed etica incorporata. Si sa quel che è capitato. Società finanziarie, banche o fondi, protagonisti nella crisi finanziaria, proprio per l’assenza di regole e sorveglianza costrinsero Stato, Banca Nazionale e autorità di sorveglianza a ripensarci, a intervenire, a regolamentare. Negli scorsi giorni l’amministratore della principale banca del paese, quella che per eccesso di avidità è stata protagonista nella crisi, si è lamentato in una intervista per le troppe regole imposte. Con un discorso sfrontatamente ricattatorio: o la finite con regole e controlli, che ci mettono in difficoltà concorrenziale, o possiamo anche andarcene altrove. Discorso analogo fa il direttore dell’Unione bancaria privata, lamentandosi per regole che non permettono una «performance assoluta positiva, in altri parole guadagnare soldi». Nel campo fiscale. È l’immancabile lamento: i ricchi troppo tassati se ne vanno e perdiamo grosse entrate. Lo ripete il Consiglio di Stato ticinese nella sua riforma fiscale, proponendo importanti riduzioni d’imposta per «trattenere i residenti con ingenti patrimoni e, allo stesso tempo, incoraggiare i non residenti che dispongono di residenze secondarie a prendere il domicilio effettivo nel nostro Cantone» (il risultato paradossale è che le perdite fiscali verificatesi per partenze “da ricatto” in quattro anni sarebbero un quinto…di quanto si vuole ora invece regalare in deduzioni fiscali solo in imposte sulla sostanza: pago quattro per evitare uno?). Nel campo della competitività. Che si applica almeno in tre modi, tutti verificabili. Nella compressione sistematica del costo del lavoro e, quindi, nella relativa stabilità o diminuzione dei salari reali se si vuol mantenere l’occupazione, continuare ad esportare, far fronte al franco forte. Nella minaccia o pratica di pronte dislocazioni altrove, nei paesi dell’Est europeo o dell’Asia, dove ci sono salari e condizioni sociali profittevoli. Nella disgregazione subdola del diritto del lavoro per lasciare liberi flessibilità, precarizzazione, sganciamento da obblighi assicurativi. Nel campo dell’etica. Emblematico ciò che sta capitando nel settore delle materie prime. La consigliera federale Sommaruga, dopo quanto è emerso dai “Paradise papers” in materia di corruzione e di violazione dei diritti umani anche per società lemaniche, denuncia il non funzionamento dell’autoregolamentazione nel settore e ritiene che si dovranno definire degli «obblighi legali». Sale la tensione tra i grandi negozianti di materie prime, che sfruttano miniere soprattutto in paesi africani. Con due argomenti che sono ricattatori: la Svizzera perderà in competitività, lavoro, entrate fiscali; non abbiamo bisogno di rimanere in Svizzera per i nostri affari (dice il direttore di Vitol, numero uno mondiale dei negozianti di petroli, sede a Ginevra, cifra d’affari 155 miliardi di franchi).
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