Alcune settimane or sono, di passaggio in Svizzera per lavoro, il direttore dell’ufficio di Amnesty International in Brasile Atila Roque seguiva con ansia via Twitter gli inattesi avvenimenti che scuotevano il suo paese. Una conversazione quotidiana via Skype lo rassicurava sulla situazione dei suoi collaboratori.


Mentre facevo un paragone tra le manifestazioni brasiliane e quelle della Primavera araba, Atila mi ha immediatamente corretta: «Da noi i manifestanti non si ribellano contro una dittatura, il Brasile è un paese democratico! L’insoddisfazione generale per le disuguaglianze e la corruzione, però, è la stessa vissuta nei paesi arabi». Che sia in Brasile o in Turchia, è proprio l’insoddisfazione a spingere la popolazione a scendere in strada. Ma è stata la violenza della polizia nei confronti dei manifestanti a far traboccare il vaso, dando ai movimenti di protesta un’importanza senza precedenti. In entrambi i paesi, i media hanno inizialmente parlato dei manifestanti come di teppisti, per poi aderire in parte alla loro causa.


A Instanbul durante i primi giorni delle proteste, il nostro collega Murat Cekiç ha trasformato gli uffici della sezione turca di Amnesty – che si trovano a pochi passi da piazza Taksim – in un ospedale di fortuna, dove dei medici curavano i manifestanti feriti dalla polizia.
Fortunatamente in Brasile la repressione non ha raggiunto lo stesso livello di violenza. Ma anche lì il governo ha in un primo tempo tentato di screditare i manifestanti, descrivendoli come elementi violenti. La polizia ha fatto un uso eccessivo della forza, usando grandi quantità di gas lacrimogeni. Tuttavia, manifestare è un diritto legittimo, uno strumento spesso efficace: dinanzi all’ampiezza delle proteste, il governo brasiliano ha dovuto fare marcia indietro sull’aumento dei prezzi dei trasporti pubblici.


Nel corso della storia numerose popolazioni hanno regolarmente manifestato per richiedere il rispetto dei propri diritti da parte delle autorità. Né le manifestazioni turche né le marce brasiliane rappresentano una novità. Decine di migliaia di persone erano già scese per le strade di Rio nel marzo scorso, quando un pastore evangelico che aveva espresso opinioni razziste e omofobe era stato nominato presidente della Commissione dei diritti umani del parlamento brasiliano.


Ma le manifestazioni delle ultime settimane, sia in Brasile sia in Turchia, sono nuove per la loro dimensione e per l’adesione spontanea che suscitano. Ed è proprio per questo motivo che, temendo la destabilizzazione del paese, le autorità tentano di porvi fine. L’impiego sproporzionato della forza da parte della polizia rappresenta un’ulteriore violazione dei diritti umani e non permetterà certamente di mettere fine alle manifestazioni, potrebbe anzi esacerbare la tensione.

 

Traduzione e adattamento: Sarah Rusconi

Pubblicato il 

03.07.13

Edizione cartacea

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