La piazza si è fatta sentire

Lo sciopero dei dipendenti pubblici era una scommessa dai difficili pronostici. Altrettanto arduo, quando scriviamo questo mercoledì sera, valutarne la partecipazione. Non lo ha fatto nemmeno il governo ne i sindacati hanno dato cifre complessive. Valutando soggettivamente, azzardiamo una buona partecipazione mediana negli istituti scolastici, molto meno partecipata in seno all'apparato amministrativo statale.
Le 2mila persone invece in piazza governo alla manifestazione delle 15 son senz'altro indice di successo. Una piazza bella piena e rumoreggiante, dove trasudava l'insoddisfazione generale contro la classe politica per le misure dei tagli.
Un segnale che la classe politica non potrà ignorare, quando si deciderà a discutere del preventivo in maniera seria. Dalla piazza di mercoledì 5 dicembre i messaggi lanciati sono stati chiari: basta continuare a farci pagare le vostre manchevolezze. Perché se la misura del taglio del 2 per cento limitata a un anno e dedotti i primi 20mila franchi di stipendio non appariva certo draconiana, giustamente i sindacati e il personale hanno fatto notare che si tratta dell'ennesimo taglio che, taglietto dopo taglietto, alla fine ha tolto quasi un 15 per cento del salario negli ultimi due decenni. Comprensibile si siano stufati di essere spremuti ogni qual volta il governo di turno ha bisogno di soldi.
Ma sarebbe banalizzare la piazza riducendo le sue rivendicazioni ai soli soldi. In gioco, stando ai manifestanti, c'è la qualità dei servizi offerti al cittadino.
Una rivendicazione molto sentita dal corpo insegnante, ma importante anche per tutti quei servizi, innumerevoli, che il personale statale o parastatale garantisce.
Basti pensare a tutti quegli istituti sociali a cui verrà ridotto dell'1,8 per cento l'importo cantonale versato quale mandato di prestazione. Case anziani e istituti per disabili, senza dimenticare gli istituti sociali per minorenni, gli asili nido e le strutture per tossicodipendenti. Mimi Lepori Bonetti, la presidente dell'Atis, cioè l'associazione mantello di questi enti, ha già annunciato che «in vista dei possibili tagli ai contributi pubblici» la loro proposta sarà la riduzione del 2 per cento dello stipendio ai propri dipendenti.
Dovrebbe invece essere scongiurato il taglio del salario ai dipendenti dell'Ente ospedaliero cantonale (Eoc) perché quest'ultimo attingerà ai capitali di riserva. Complessivamente l'Eoc dovrebbe "consumare" tre milioni di franchi per compensare l'ammanco del contributo cantonale. Tre milioni che però verranno a mancare, vuoi per progetti innovativi o nuovi macchinari specialistici dove si avvertiva la necessità di investire, penalizzando dunque il servizio.  
E mentre nella piazza antistante il palazzo del potere politico gli oratori si succedevano sul palco, il governo ha convocato la stampa (per la prima volta di quest'anno) alle 15.30, al termine della riunione settimanale del Consiglio di Stato.
Alla giornata di mobilitazione e alle sue rivendicazioni, sono stati dedicati tre minuti scarsi, giusto il tempo per Marco Borradori di ribadire che i tagli non saranno ritirati. Nel caso, sarà compito del parlamento decidere. Manuele Bertoli, ministro dell'educazione, ha invece espresso soddisfazione che la giornata si sia svolta nella calma e i servizi essenziali pubblici siano stati garantiti. Bertoli ha anche voluto sottolineare la centralità del diritto allo sciopero, anche se si è detto felice della denuncia presentata dai sindacati perché i tribunali potranno chiarire nel dettaglio le modalità con cui il diritto allo sciopero può essere esercitato nel settore pubblico.


La scuola si apre al dibattito

Se c'è un merito della proposta governativa di un taglio del 2 per cento sul corpo insegnante, è quello di aver alzato il coperchio sullo stato di salute della scuola ticinese. Interessante a questo proposito è stata l'iniziativa del 29 novembre, quando una cinquantina di sedi scolastiche hanno aperto le porte al pubblico, invitandolo a conoscere da vicino la quotidianità degli istituti scolastici, nei suoi risvolti positivi e negativi. Area ne ha approfittato recandosi alle scuole medie di Pregassona, dove nell'aula multiuso era stato predisposto «uno spazio per presentare e discutere alcuni dei molti temi che gravitano intorno alla scuola».
Nel particolare, abbiamo partecipato a due temi, per così dire, generazionali: «la formazione dei nuovi docenti» e «insegnare dopo i 55 anni». Meno male che la passione del mestiere resiste, vien da dire dopo aver sentito le testimonianze. Una passione che potrebbe però lasciar il sopravvento alla frustrazione se dei correttivi non saranno apportati al più presto, è il grido d'allarme lanciato dagli insegnanti. Una frustrazione derivante da un crescente carico di oneri sempre meno riconosciuto, sia dalla società che dalle istituzioni.
Già il solo accesso alla professione è diventato negli ultimi anni un percorso di sacrifici economici e denso d'impegni. Conclusi gli studi universitari, altri due anni senza stipendio aspettano i futuri docenti, costringendoli a far capo nuovamente ai genitori per chi può o indebitandosi coi prestiti alla formazione.
Il primo anno si frequentano a tempo pieno i corsi del Dipartimento formazione e apprendimento (ex Alta Scuola Pedagogica) di Locarno, senza dunque tempo materiale per guadagnare. Il secondo anno, in linea teorica è consentito lavorare quale insegnante al 50 per cento. In teoria perché nella realtà la gran maggioranza dei futuri docenti deve accontentarsi di qualche ora di lezione. Vi è anche chi di ore ne ha zero. Chi invece ha la fortuna di aver trovato ore d'insegnamento, oltre al tempo da dedicare alla preparazione della lezione o alla correzione dei venticinque esercizi dati agli alunni, si assomma il tempo da dedicare ai "compiti" chiesti dal Dfa.
Anni di equilibrio precario sia temporale che economico, al quale si aggiunge l'ansia dell'essere sempre sotto esame. «Se non altro, alla fine di questo percorso di sopravvivenza, la vostra motivazione è testata» ha ben sintetizzato una signora del pubblico presente a Pregassona.
I docenti con «80 anni di esperienza in due» hanno invece descritto la crescita esponenziale degli oneri a cui sono confrontati gli insegnanti, senza però che questi siano riconosciuti. Un esempio su tutti è quello del docente di classe, il cui lavoro settimanale per quello specifico incarico equivale a circa 10 ore settimanali, mentre il cantone ne riconosce solo due. Fortunatamente la passione e il piacere dell'insegnare resiste, ma non si può abusarne. Il rischio concreto, avvertono i docenti, è che si deteriori il livello della scuola ticinese. Ne va del futuro dei nostri figli.

Pubblicato il

07.12.2012 03:30
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