La paura degli operai ad essere fotografati

Tempo fa la Televisione Svizzera trasmetteva film elvetici degli anni ’70 - ’80 sotto la sigla “Come eravamo”. Fra questi film c’era anche il mio film sui contrabbandieri della Val di Tresa e lo spopolamento delle valli. Un film trasmesso a 30 anni dalla sua creazione. È molto curioso, non trovo altra parola, che soltanto dopo molti decenni venga a galla parte della nostra storia, in parte rimossa e nascosta, o volutamente dimenticata. Le fotografie in bianco e nero che avevo scattato durante le ricerche per il mio film “San Gottardo” (1977), sono rimaste lì, nella mia scatola d’archivio. La memoria dormiva. La stampa quotidiana e i mass media non s’interessavano di questo tipo di fotografie: c’erano le fotografie delle agenzie, dei fotografi titolari, belle e luccicanti, che esaltavano la tecnologia e il progresso. Era il periodo delle iniziative xenofobe di Schwarzenbach. Dieter Bachmann termina così l’introduzione del libro “Il lungo addio”: «Erano dappertutto, abbiamo detto, e però in nessun posto. Di nuovo sono qui. Né qui né là. Non là, mai del tutto qui. Gente che partiva e non arrivava. Che tornava indietro e non giungeva a casa. Erano dappertutto e non c’erano. Ma eccoli, qui». Mi ricordo di non aver scattato queste fotografie con una guida o con l’autorizzazione della ditta di costruzione. Sono entrato con i minatori italiani incontrati fuori dal cantiere, che mi dicevano di non voler essere fotografati. Erano severi e sinceri. Pensavo si vergognassero dei vestiti, delle facce non rasate, o del misero mobilio. Avevo capito male, e ho capito soltanto più tardi, durante la lavorazione del film stesso. Durante quel periodo, con il permesso della Holding, filmavo già da un mese nella galleria autostradale. Entravamo ogni giorno con la medesima sciolta, l’équipe composta da capo squadra, jumbista, minatori e aiutanti manovali. Avevamo ritardato le riprese filmiche nelle baracche. Avevamo “ritardato” queste riprese nei magazzini abitacoli e nella mensa per intuizione, disorganizzazione o sensibilità, non mi ricordo più. Solo alla fine del periodo di lavorazione del film nella galleria abbiamo girato le scene con gli operai in questi abitacoli, durante le quali ci raccontavano della vita separata dalla famiglia, del fatto di essere quasi tutti stagionali, stagionali giovani, di sesso, cibo e alcool. Avevano parlato tanto che il giorno dopo le riprese nelle baracche degli operai, il rientro nella galleria ci fu vietato (eravamo pronti come al solito all’alba, alle 5.30, con elmetti, stivali ed attrezzature cinematografiche, all’entrata dell’ascensore che ci portava nel cunicolo). Ma lì c’erano due ingegneri con l’elmetto bianco che ci aspettavano e ci impedirono l’entrata. Alle nostre domande allibite, rispondevano con un sorriso cinico: sapete bene perché… Siamo stati costretti ad interrompere le riprese nella galleria e a fare in seguito ancora qualche ripresa paesaggistica per sfogarci, poi nemmeno utilizzata per il film. Solo dopo questa punizione, questo impedimento a finire di filmare il lavoro dei minatori, ho capito perché gli operai incontrati durante le ricerche per il film, intorno alle baracche del San Gottardo, insistevano per non essere fotografati: sapevano benissimo che andavano incontro a minacce, problemi e intimidazioni se avevano contatti con estranei. Avevo scattato le foto degli operai con molto rispetto per la loro paura, timore subìto poi da noi cineasti stessi. I negativi delle fotografie sono rimasti nelle mie scatole; magari anche le paure dei minatori avranno le loro scatole da aprire, come noi apriamo oggi questo libro “Il lungo addio”. Ma non chiudiamolo troppo in fretta, perché ci sono momenti da ricordare e sui quali meditare, bisogna riflettere su quel periodo ma anche sulla situazione che viviamo di nuovo, e che vivono italiani incravattati e liftati. Alberto Nessi scriveva in un libro sulla fotografia in Ticino che «il desidero del fotografo vero è sempre quello, credo: dire una verità, strappare un po’ di terreno alla morte con l’occhio, il cervello e il cuore. Fermare il tempo, per fare compagnia agli altri uomini».

Pubblicato il

12.03.2004 02:30
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