È una barzelletta elvetica: peccato non faccia ridere. Con un retrogusto amaro si è tenuta questa mattina a Berna la conferenza stampa, indetta da Unia, dove è stato presentato il nuovo rapporto sui salari femminili 2025: c’è da mettersi le mani nei capelli e scandalizzarsi, sì, scandalizzarsi per i dati che sono emersi. Alla faccia e in barba alla Legge federale sulla parità dei sessi che, entrata in vigore nel 1996, non interessa a una larga fascia della politica che sia rispettata. Oggi è stata di nuovo affrontata la questione dei salari femminili con una serie di riflessioni per ottenere (finalmente! È ora!) la parità di genere. Partiamo dalla mesta e funesta contabilità da leggere con attenzione e sdegno, non restando indifferenti verso un dato di fatto che appartiene all’(a)normalità di una Svizzera che non reagisce, ma lascia correre senza intervenire. Ci stiamo avvicinando al 14 giugno – giornata legata allo sciopero e alle proteste femministe – e come ha sottolineato Vania Alleva, presidente di Unia, «non ci può essere nessuna parità di genere senza salari equi». È il minimo non solo sindacale, ma è un tema di società pulsante, che coincide anche con il minimo politico dovuto alle lavoratrici in questo paese. Il rapporto presentato a Berna evidenzia una situazione grave: la disparità salariale fra i generi rimane alta, per usare un eufemismo, perché in realtà è altissima. Sono cifre da vergogna, per il volume di miliardi di franchi persi dalle donne, ma soprattutto per le ragioni di questa differenza. Gli uomini sono dei fenomeni? No, «quasi la metà del divario (45%) è basata su una discriminazione sessista» come ha sottolineato Noémie Zurlinden, economista di Unia, che ha passato al setaccio i vari rami professionali per registrare le “anomalie” fra i sessi quando si tratta di busta paga. Una discriminazione sessista che si accentua nel privato e se sei migrante: un connubio che costa caro, penalizzando ancor più in termini di retribuzione salariale. Zurlinden è stata chiara: le incredibili oscillazioni di stipendio non sono «riconducibili a criteri oggettivi». Perché? Quali sono gli aspetti soggettivi che legittimano l’ingiustizia e diventano funzionali a un’economia approfittatrice e furba? Resiste, secondo Aude Spang, segretaria per la parità di Unia, «il modello familiare obsoleto e discriminatorio con un “capofamiglia” e una “casalinga”». In questa ottica surreale «il reddito della donna è trascurabile, poiché con il suo salario l’uomo che percepisce il reddito principale può mantenere l’intera famiglia (almeno in teoria)». Lo sappiamo, il modello era già ingiusto 60 anni fa, ma nel 2025 diventa una barzelletta inaccettabile non corrispondendo in alcun modo alla realtà. L’angelo del focolare non esiste più e le donne devono guadagnare ciò che è giusto e serve loro per vivere e non per sopravvivere. Si è ricordato in conferenza stampa che le donne svolgono quasi due terzi di lavoro di assistenza non pagato, che corrispondono in media a 30 ore alla settimana regalate. Per riuscire a lavorare dentro casa (gratis) e fuori casa (con una retribuzione) la popolazione femminile è spesso costretta a trovare un impiego a percentuale non piena. Zurlinden ne ha illustrato le conseguenze: «Quasi il 60% delle donne lavora a tempo parziale, contro il 20% degli uomini. Ciò ha effetti negativi su stipendio, prospettive professionali e pensione». Vale a dire le ripercussioni non si vivono solo nel presente, ma condizionano anche il futuro limitando le opportunità di carriera e preparano a una terza età con un gap pensionistico importante, che farà penare e vivere in ristrettezza migliaia di donne. Eccoli, i fattori strutturali, costruiti da una società di uomini che ha favorito gli uomini, portando a un divario retributivo di genere da capogiro: complessivamente le donne hanno un reddito inferiore del 43,2% rispetto agli uomini secondo gli ultimi dati dell’Ufficio federale di statistica. Parlando di stipendi che rasentano il minimo vitale, e prendendo come fonte l’Ustat, mentre tra gli uomini una persona su dieci ha un reddito basso, la percentuale schizza quando si parla di donne dove è una su cinque a vivere il fenomeno. Per spiegarci: «Un salario basso è un salario lordo a tempo pieno inferiore a due terzi del salario mediano. Nel 2022 il salario mediano era pari a 6.170 franchi per 13 mensilità. I salari bassi erano, dunque, inferiori a 4.113 franchi per 13 mensilità» ha continuato, cifre alla mano, Zurlinden. La situazione si fa più pesante quando le lavoratrici hanno un background migratorio: il fenomeno dei salari bassi si abbatte su di loro come una mannaia, colpendone una su tre. Nel concreto: nel settore privato si arriva a un divario salariale fra i sessi del ben 17,5% e in cima all’indegna hit parade “primeggia” il ramo della salute e della socialità con il 18,8%. Un elemento, quest’ultimo, particolarmente preoccupante vista la situazione particolarmente allarmante delle cure in Svizzera. Continuiamo a spaventarci: nell’industria la differenza salariale è particolarmente elevata, così come nei settori alimentare e metalmeccanico. Qualche dato statistico per dare l’idea: nel settore chimico-farmaceutico la busta paga di una donna è inferiore del 5,3% rispetto a quella di un collega uomo con stesse mansioni e formazione. Nella ristorazione la percentuale è del 7,6; nei trasporti dell’8,3, mentre nell’industria alimentare tocchiamo il 16,1% e nel commercio al dettaglio il 17,4%. Voilà e amen? No, amen no. Vania Alleva ha ribadito che le lotte sindacali portano risultati. Le campagne a favore del salario minimo e dei salari minimi legali funzionano come dimostra il caso di Ginevra, dove sono state introdotte le misure di cui hanno beneficiato molte lavoratrici, che hanno potuto tirare un primo sospiro di sollievo, cui dovranno seguirne altri. «L’analisi evidenzia chiaramente l’importanza dei salari minimi per chi percepisce uno stipendio basso. Poiché – come abbiamo visto – le donne sono svantaggiate economicamente nel mondo del lavoro, con questa misura legale si contribuisce notevolmente alla riduzione delle diseguaglianze di reddito tra i generi e alle pari opportunità» ha rimarcato la presidente di Unia. Per questo ogni attacco ai salari minimi, come la mozione Ettlin (“Proteggere il partenariato sociale da attacchi inaccettabili”), va respinta con forza, perché manterrebbe il paese in uno stato arcaico. Unia oggi ha voluto tirare le somme, proprio in vista della data simbolica del 14 giugno, per richiamare l’attenzione su uno dei problemi che la Svizzera non ha risolto e tiene sottotraccia, invece di affrontarlo seriamente. E il risultato lo sentono sulla propria pelle le milioni di donne svizzere o che risiedono in questo paese. Per questo il sindacato chiede a nome e per tutte le donne che le analisi della parità salariale vengano eseguite e controllate in base alla legge e su vasta scala: si pretendono «analisi per tutte le aziende (un quinto non le fa, un terzo non lascia che vengano verificate e la metà non le pubblica), come l’integrazione di controlli e sanzioni nella Legge sulla parità dei sessi». Una misura urgente dal momento che la legge è debole, non prevedendo sanzioni, e molte aziende non si attengono all’obbligo normativo. Ovviamente, anche se nonostante la gravità del fenomeno non appare un’urgenza per la politica, «i salari delle donne devono finalmente essere aumentati su tutta la linea, soprattutto nei settori femminili dove gli stipendi sono ancora più bassi». In questa ottica si rivendica che «nessun salario sia sotto i 4.500 franchi e almeno 5.000 franchi per le persone in possesso di un diploma di apprendistato». Infine, oltre a buoni CCL, è stato ricordato che i salari minimi sono fondamentali per garantire il minimo esistenziale a tutte le persone. Un ritratto ombroso del lavoro femminile in Svizzera, che, se circoscritto al canton Ticino, diventa nero pesto. |