Assistiamo di nuovo a tempi duri per il mondo dell’impiego retribuito. Dopo gli anni della crescita economica che ha condotto, in genere, a un aumento del potere d’acquisto per i consumatori, ora a causa delle condizioni finanziarie internazionali sfavorevoli allo sviluppo, appare chiaro che le vacche grasse devono lasciare il posto a quelle magre. I primi a fare le spese di tale situazione sono i giovani diplomati in cerca d’impiego, i lavoratori con scarse qualifiche professionali o quanti sono ormai prossimi al pensionamento. Un segno del rapido cambiamento di panorama è la crescente precarietà dell’occupazione. È il risvolto antipatico della medaglia della tanto esaltata (ma sovente deleteria) flessibilità. La maggioranza della popolazione vive perciò questo periodo di recessione o stagnazione economica con l’angoscia di perdere il posto di lavoro, di non ottenere un reddito sufficiente, di doversi riqualificare professionalmente, di perdere la sicurezza sociale (vedi aumento dei premi assicurativi e diminuzione delle rendite di disoccupazione e perdita di guadagno). Ne consegue, purtroppo non a caso, un aumento dei problemi socio-sanitari, delle tensioni collettive, della violenza, dei casi di suicidio e disturbi neurologici gravi, ecc. In una simile situazione, pare inevitabile che venga esercitata una maggiore pressione sui salariati, sulla loro efficienza lavorativa, sui salari e sulle prestazioni sociali. Sono gli imprenditori – per primi – a chiedere una diminuzione degli stipendi o perlomeno il congelamento di aumenti e carovita. Inoltre, anche in Svizzera, si rompono contratti di lavoro collettivi o avvengono licenziamenti e la diminuzione dei tassi d’interesse delle casse pensione. La pace del lavoro viene però messa in pericolo, secondo le denunce dei sindacati e le recenti forme di protesta anche in Svizzera. Ma cosa ha a che fare un simile discorso con la prospettiva che seguiamo in questa nostra rubrica? In apparenza ben poco. In realtà, l’insegnamento sociale cristiano non fa che ribadire – per qualunque essere umano – il diritto a condizioni di vita dignitose e quindi ad attività stipendiate corrispondenti alle qualifiche professionali e alle necessità esistenziali. Non che la posizione dei credenti sia diversa o persino migliore di coloro che non credono o che non considerano la fede un termine di confronto o un orientamento. Ma c’è una solidarietà che dovrebbe essere naturale tra tutti gli uomini – e ancor più tra gli operai: la lotta pacifica e non-violenta per la giustizia sociale. E la giustizia per tutti è il presupposto della pace del lavoro. Essa è ai nostri giorni seriamente minacciata. Occorre allora un impegno comune per ristabilire un clima di fiducia e di confronto sincero tra le diverse parti sociali. Siamo tutti chiamati a rimboccarci le maniche, per il bene collettivo e quello individuale.

Pubblicato il 

18.10.02

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