Il cantone Ticino s’è dunque dotato di una nuova Legge sulla cinematografia. La cosa è di per sé buona e giusta, soprattutto in quanto la nuova legge recepisce (pur con il limite di mezzi finanziari ridotti all’osso) la necessità di sostenere la produzione cinematografica sia come veicolo di promozione culturale sia come non trascurabile fattore economico. A votarla sono però rimasti in aula soltanto 46 eroici granconsiglieri, così che s’è sfiorato la mancanza del quorum, a dimostrazione che ai politici la cultura non interessa affatto, tranne lodevoli eccezioni. Questo disinteresse spiega anche alcuni scivoloni che il dibattito parlamentare ha evidenziato. In primo luogo un’avvilente discussione su quanto ticinese debba essere il regista perché il Cantone ne possa sostenere il film, discussione avviata dal leghista Lorenzo Quadri, che evidentemente ignora tutto anche soltanto dei normali meccanismi di produzione e di coproduzione. Quadri sul Mattino così ha riassunto la sua indignazione per quelli che lui considera degli sprechi nel campo della cultura: «ad approfittare dei fondi cantonali troviamo infatti registi italiani già affermati, dalle prevedibili simpatie rosseggianti (...) che lavorano con case di produzione zurighesi a film che con il Ticino non c’entrano come i cavoli a merenda (...). Oppure – che è peggio – registi dai cognomi inequivocabilmente africani, che realizzano film dai titoli inequivocabilmente inglesi, e anche qui per trovare il legame col Ticino ci vuole già una certa fantasia». Se l’allusione, alquanto stupida, è a Mohammed Soudani e Jesse Allaoua, il legame col Ticino è tanto forte che farebbe impallidire non pochi leghisti. Fortunatamente il plenum non ha seguito Quadri nel suo desiderio di pulizia etnica del nostro cinema, ma già soltanto l’aver portato in parlamento simili argomenti evidenzia il degrado dell’idea di cultura che si sta diffondendo nella nostra classe politica. Fra qualche anno, se per queste affermazioni si continuerà a non protestare, Quadri potrebbe anche avere la maggioranza dalla sua parte. Altro punto critico è l’istituzione di un premio biennale del cinema al miglior film ticinese. Di per sé può essere anche una buona idea, pur se forse i soldi che vi confluiranno potrebbero essere meglio spesi in un efficiente sostegno alla distribuzione (che è oggi il punto più debole della promozione del cinema non solo ticinese ma svizzero). Peccato che l’idea, nata in commissione, non sia stata per nulla approfondita: visti i pochi film girati in Ticino, si farà un’unica categoria comprendente documentari e fiction, lunghi e corti, video e pellicola? Come si farà allora a paragonare un prodotto con l’altro? E inoltre: come mettere assieme una giuria indipendente composta da persone che ben conoscono il cinema svizzero e ticinese ma che in nessuno dei film da giudicare figurano quali regista, produttore, sceneggiatore o distributore, e che non gli abbiano attribuito sussidi o l’abbiano selezionato in qualche festival? Ma il peggio è che la commissione nel suo rapporto ha rivolto un caldo invito al Festival (internazionale!) di Locarno a proiettare il film vincitore in Piazza Grande, indipendentemente dalla qualità del film, dal formato, dalla sua capacità di reggere il mega schermo e il confronto internazionale. Ennesima dimostrazione che la politica tende a non più voler rispettare l’autonomia della cultura, un fatto grave ma apparso ai più ovvio dopo il caso Hirschhorn e le polemiche cantonticinesi su “Submission”. Ultima avvilente annotazione: la nuova Legge sulla cinematografia, i suoi aspetti controversi e il dibattito parlamentare non hanno suscitato nessuna discussione fra gli addetti ai lavori e nessun commento critico. Anche questo articolo rischia di rimanere un’eccezione. È allora il caso di dire che gli intellettuali e gli artisti di questo paese si ritrovano i politici e le leggi che si meritano. E fanno bene a non più lamentarsi.

Pubblicato il 

18.11.05

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